Marco Onado, Il Sole 24 Ore 14/1/2014, 14 gennaio 2014
ORA LA «LEVA» DEVE TRADURSI IN PIÙ CREDITO ALLE IMPRESE
Il Comitato di Basilea ha approvato la versione definitiva del cosiddetto leverage ratio, che pone un limite minimo al capitale che le banche devono detenere rispetto al totale dell’attivo. Si tratta - come ha detto Mario Draghi - di un importante passo avanti nella costruzione di Basilea-3 perché un limite semplice fra due grandezze-chiave e trasparenti del bilancio rappresenta una necessaria integrazione ai coefficienti fin troppo sofisticati che hanno finora determinato il capitale in funzione del grado di rischio delle varie attività della banca.
Il nuovo impianto comincerà ad essere operativo dall’inizio dell’anno, quando le autorità pubblicheranno i primi risultati, ma è in qualche modo nella fase sperimentale, in quanto il Comitato di Basilea ha già annunciato che il disegno finale verrà definito nel 2017, per entrare a regime con l’inizio dell’anno successivo.
C’è da sperare che in questo lasso di tempo le norme vengano rese più stringenti di quanto siano in questa prima fase, che sembra dominata dal desiderio di non modificare troppo lo status quo e soprattutto di tener conto delle esigenze delle grandi banche globali, come dimostrano i consistenti aumenti di prezzo messi a segno dalle azioni di Barclays, Deutsche Bank e simili nella giornata di ieri. Ci sono molti motivi per cui una stretta ulteriore appare non solo opportuna, ma necessaria.
Primo. L’imposizione di un limite minimo al capitale in percentuale del totale dell’attivo non è una novità. Venne infatti introdotto dalla Banca d’Italia in sede di prima applicazione dei principi di Basilea alla fine degli anni Ottanta e poi lasciato cadere perché non previsto dalla direttiva europea, che aveva - c’è da stupirsi? - tenuto conto delle forti pressioni esercitate da banche francesi e tedesche. E secondo la testimonianza di Sheila Bair, già presidente della Fdic americana, un tentativo di introdurre questo limite nel 2006, quando la crisi era ormai alle porte, venne brutalmente stoppato da quegli stessi interessi. Dunque, il passo avanti di oggi è solo la correzione delle omissioni del passato.
Secondo. Proprio per le debolezze di Basilea-2, le banche - soprattutto quelle più grandi che godevano dello stato di "troppo grandi per fallire" - negli anni precedenti la crisi hanno portato l’indebitamento a livelli estremi: il caso più clamoroso è quello di Deutsche Bank che aveva debiti pari a 50 volte il capitale. Un livello sconosciuto persino agli hedge fund.
Piaccia o no, nei precedenti regimi di Basilea, le grandi banche hanno sfruttato tutti i gradi di discrezionalità loro concesse per rafforzare il capitale solo rispetto alle mitiche «attività ponderate per il rischio», ma non rispetto al totale dell’attivo. E in questo modo esse hanno addirittura potuto ridurre in valore assoluto il livello del patrimonio. Per le principali banche internazionali del campione Mediobanca, dal 1999 al 2007 gli aumenti di capitale realizzati sono stati inferiori ai deflussi di patrimonio (per dividendi e buyback) per quasi 200 miliardi di euro in Europa e per oltre 400 miliardi di dollari negli Stati Uniti. In altre parole, i mitici livelli di redditività (e di altrettanto mitico valore creato per gli azionisti) erano dovuti al fatto che la base patrimoniale veniva sistematicamente assottigliata, sotto gli occhi tanto distratti quanto benevoli dei principi di Basilea allora imperanti.
Detto in altri termini, la ricapitalizzazione a tappe forzate che le autorità hanno opportunamente imposto da quando è scoppiata la crisi, serve innanzitutto a correggere l’indebolimento tollerato in precedenza: dunque il livello attuale previsto non deve affatto essere considerato quello di equilibrio. Tanto è vero che vi è un vasto corpo di ricerca teorica ed empirica che sostiene che il capitale delle banche deve in prospettiva essere notevolmente superiore al 3 per cento fissato oggi soprattutto per ragioni di real politik. Il rapporto della Commissione indipendente britannica incaricata di studiare la normativa per mettere in sicurezza il sistema bancario, aveva parlato di un limite minimo addirittura del 10 per cento, peraltro inferiore a quello indicato in un recente paper della Bank of England o da studiosi come Anat Admati e Martin Hellwig. Si tratta forse di valori che peccano nel senso opposto, anche se nessuno dei proponenti pare afflitto da furori giacobini, ma che comunque indicano che il risultato oggi raggiunto deve essere visto come una tappa verso una correzione degli eccessi del passato, non come un traguardo definitivo.
Terzo. Uno dei meriti del limite all’indebitamento definito domenica a Basilea è quello di tener conto anche di attività fuori bilancio e dunque delle voci che contribuiscono ad alimentare operazioni di trading e speculative, che rappresentano un rischio non solo per le banche che le pongono in essere, ma anche per il sistema finanziario nel suo complesso. La via maestra per evitare che queste operazioni (che non contribuiscono se non in modo blando ed indiretto all’attività produttiva) possano assumere dimensioni eccessive è quella di obbligare le banche ad usare un livello congruo di capitali propri, non solo quelli degli altri. Quindi un limite basso e/o modalità generose di calcolo della base di riferimento possono correggere solo in parte la distorsione derivante dall’indebitamento eccessivo, che ha incentivato in passato le banche ad assumere rischi che in alcuni casi hanno avuto effetti devastanti. E banche come quelle italiane che meno sono orientate a questo tipo di attività, hanno tutto da guadagnare da norme più severe al riguardo.
Bene insomma aver finalmente colmato una delle lacune più gravi di quella macchina complessa che è la disciplina di Basilea, ma non possiamo accontentarci dei criteri fissati per la prima applicazione. Questa fase sperimentale dovrà essere utilizzata anche per stringere molti bulloni.