Filippo Facci, Libero 14/1/2014, 14 gennaio 2014
ANTIMAFIA, CHE PALLE
Domenica sera, in un teatro palermitano, c’è stata la solita baracconata antimafia con urla e strepiti: special guest Nino Di Matteo, neo eroe dopo che Antonio Ingroia è come se fosse morto. Ma a essere morta, cioè sputtanata, è l’espressione «antimafia » usata dal Fatto Quotidiano per vendere più copie, da Massimo Ciancimino per salvaguardare tesoretti, da ’ndranghetiste calabresi per fare carriera, e dal pm Nino Di Matteo per ritrovarsi vittima potenziale di attentati che non esistono. Di Matteo è quel pm che per sicurezza diserta le udienze milanesi (in un’aula bunker) ma poi va tranquillamente al cinema a vedere il film di Pif o in teatri imbottiti di gente che gli tributa ovazioni: non come Paolo Borsellino, che quando lo minacciarono non si fece più vedere per non rischiare di coinvolgere innocenti. L’espressione «antimafia» è ormai inutilizzabile anche per rispetto di chi la pratica davvero: per esempio la settantina di magistrati palermitani che tengono in piedi la baracca anziché istruire processi fantasma, per esempio il procuratore aggiunto Teresa Principato, separata e separatista rispetto al gruppetto della «trattativa» (lei al teatro palermitano non c’è andata, benché invitata) forse perché la signora indaga su Matteo Messina Denaro e cioè sulla mafia vera, concreta. La morale è che Di Matteo viaggia su aerei di Stato, la Principato invece era rimasta senza scorta. Ecco perché a Di Matteo daremmo un suggerimento morettiano: Nino, spostati, c’è da occuparsi di mafia.