Luciano Canfora, La Lettura - Corriere della Sera 12/1/2014, 12 gennaio 2014
IL PRIMO STATO KEYNESIANO FU L’ATENE DI PERICLE E FIDIA
Che lo «Stato sociale» sia un peso lo pensano soprattutto coloro che non hanno problemi economici. Essi predicano, con calore e convinzione, la virtù. Va da sé che lo Stato sociale è costoso. E infatti coloro che se la passano bene temono sempre che, in un modo o nell’altro, il peso di esso ricada sulle loro spalle. Di qui la loro costante esortazione all’altrui virtù e l’ostilità che essi sempre manifestano verso i politici che dallo Stato sociale traggono forza e consenso.
L’archetipo occidentale dello Stato sociale fu l’Atene di Pericle, fatte salve beninteso le differenti misure e proporzioni. Roosevelt, figura-simbolo dello Stato sociale nella prima metà del Novecento, non ne ebbe forse sentore, ma subì, per molti aspetti, contraccolpi e ottenne successi analoghi rispetto a quelli che toccarono all’aristocratico ateniese alla metà del V secolo a.C. L’ostilità di cui Pericle fu bersaglio ci è nota soprattutto grazie alla Vita di lui scritta da Plutarco sulla base di buone fonti che colmano egregiamente la distanza tra Pericle e l’età di Nerva e Traiano (in cui Plutarco visse e scrisse le Vite parallele ). La massa di informazioni allarmanti su Pericle che Plutarco riesce a mettere insieme — le insinuazioni sulla sua vita privata, i processi contro i suoi migliori collaboratori e in primis contro Fidia, vero cervello della sua politica urbanistica e di lavori pubblici, gli attacchi velenosi dei comici etc. — non deve portarci fuori strada. Sul piano della comprensione storica, il fatto principale è che Pericle è riuscito a farsi rieleggere stratego per decenni e decenni consecutivamente. Ciò significa che affrontava ogni anno la campagna elettorale e ogni anno la vinceva. Il che non era certo fatica da poco con un elettorato così politicizzato e volubile. Non si riflette a sufficienza sulle implicazioni concrete di questo fatto macroscopico. Dunque il consenso (fino all’incauta decisione di entrare in guerra nel 431 a.C.) non gli è mai mancato. (Anche lui, come Roosevelt, ha dovuto faticare per convincere i concittadini della necessità di entrare in quella guerra, ma è morto troppo presto per poter vedere gli effetti di tale scelta).
Come si consolidava un tale ininterrotto consenso? La grande politica di lavori pubblici gli consentiva di assicurare lavoro e salario a molti. Né mancava, nel meccanismo della «democrazia» ateniese il modo di far gravare, al tempo stesso, il peso di tante spese per la città (feste, teatro, arsenali, navi: le cosiddette «liturgie») sui ricchi. Scrisse nei primi anni di Weimar un notevole storico berlinese, allora comunista, Arthur Rosenberg, che i ricchi erano, all’interno del «sistema Atene», la «mucca da spremere». Non espropriare, dunque, ma costringere la ricchezza (la quale di solito, diceva Benjamin Constant, «si nasconde e fugge» e perciò è «più forte del governo») a farsi piegare per usi sociali.
Al centro della politica sociale-urbanistica di Pericle c’è un uomo la cui biografia largamente ci sfugge: Fidia. Massimiliano Papini, per Laterza, ne ha tentato un ritratto: Fidia. L’uomo che scolpì gli dei .
Diamo la parola a Plutarco (Vita di Pericle ): «Tali opere — edifici ecc. — comportavano lavori di ogni genere e suscitavano le più svariate necessità: stimolando tutte le arti, mobilitando ogni mano, davano occupazione retribuita a tutta la città, la quale si trovava perciò nella condizione di mantenersi e al tempo stesso abbellirsi. (…) Pericle propose al popolo grandi progetti di costruzioni e disegni di opere la cui esecuzione richiedeva tecniche e tempi lunghi. Ogni arte radunava sotto di sé, come un generale il proprio esercito, una massa di manovali e lavoratori non specializzati che servivano quali membra e strumenti. Così le diverse necessità di lavoro distribuivano e diffondevano il benessere in tutta la popolazione. Gli edifici sorgevano dovunque, magnifici nella loro grandiosità, e inimitabili per bellezza perché gli artigiani facevano a gara per superarsi l’un l’altro. Si era creduto che ciascun edificio sarebbe giunto a compimento solo con l’opera di parecchie generazioni e invece furono tutti terminati al culmine di un solo governo. (…) Da questi monumenti emana come una perenne giovinezza che li preserva dal logorio del tempo. Direttore e sovrintendente dei lavori per incarico di Pericle fu Fidia, anche se ciascuna costruzione ebbe propri e grandi architetti. Callicrate ed Ictino ad esempio lavorarono al Partenone». E segue un’ampia esemplificazione di monumenti e rispettivi direttori dei lavori.
Pericle, amico del filosofo Anassagora e della audace Aspasia, etèra di Mileto, non era certo un bigotto. Ciò non gli impedì di riuscire a trasformare in miracolo un infortunio sul lavoro. Un operaio che lavorava ai Propilei sull’Acropoli cadde dall’impalcatura e fu quasi in fin di vita. Ma Pericle fece sapere che la dea Atena, protettrice della città, gli era apparsa in sogno e gli aveva dettato la cura. In breve l’infortunato si riprese. Pericle fece subito innalzare una statua in bronzo ad «Atena Igea», patrona della salute. Padre Pio non ha inventato nulla.
La buccia di banana in cui si cercò di far scivolare Pericle fu proprio il legame con Fidia. Contro di lui furono fatte circolare le più diverse accuse: per esempio che accogliesse in casa «donne di buona famiglia, per conto di Pericle». La stessa accusa fu rivolta anche ad Aspasia, dal comico Ermippo: anche Aspasia, secondo tale accusa, riceveva «donne di condizione libera per il piacere di Pericle» (Plutarco, capitolo 32). Ovviamente il doppione insospettisce. Plutarco protesta contro queste maldicenze, ma ugualmente dà largo spazio a tutto ciò. Un certo Diopite, di mestiere indovino, cercò di imbastire un processo per empietà contro Anassagora. Il quale si allontanò da Atene. Un tale Dracontide, che ad un certo punto fu eletto stratego, pretese la pubblicità dei registri contabili relativi alle ingenti spese pubbliche.
Ma il colpo più duro, che questa volta andò a segno, fu l’accusa di furto mossa contro Fidia da un sottoposto del suo stesso atelier. Secondo costui, che si chiamava Menone, Fidia avrebbe rubato porzioni dell’oro utilizzato per ricoprire la grande statua di Atena. Il mostruoso processo si concluse con la condanna, e forse morte in carcere, di Fidia. Si era alla vigilia della guerra con Sparta, e qualcuno si spinse a dire che Pericle provocava la guerra per offuscare l’effetto negativo del processo. La tradizione su questa vicenda è molto pasticciata: tra l’altro, potrebbe trattarsi di avorio e non di oro (Pericle fece staccare l’oro dalla statua, lo fece pesare e dimostrò che non mancava nulla), e il processo potrebbe risalire al 438, non al 432. Sulla vicenda Papini orienta molto bene, con un’analisi stratigrafica delle fonti.
Questo libro ha molti meriti. Oltre ad essere il primo tentativo moderno di costruire una biografia scientifica di Fidia, è anche un bilancio, ovviamente problematico, sulla effettiva entità dell’opera artistica di lui. Papini si rende ben conto della centralità politica di Fidia nel sistema pericleo. E sa anche spiegare al lettore, non di rado frastornato dalla critica d’arte a carattere estatico-esclamativo, il senso esatto di quel grande artigianato che fu l’impegno «artistico» nell’arcaica e fervida Atene del V secolo.