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 2014  gennaio 12 Domenica calendario

ROMA CITTÀ PERSA


Un antico detto di origine (almeno per me) ignota, recita: «Più vicino sei a Roma, più lontano sei dal cielo». Forse proprio per via del fatto che non riesco a ricordare da dove provenga, l’ho sempre considerato l’emblema del florilegio di detti, frasi, aforismi e citazioni che identificano Roma come il luogo di perdizione per antonomasia. Nessun’altra città occidentale è accompagnata da una simile reputazione, ed è interessante notare che essa ha attraversato tutte le epoche, da quella dello splendore imperiale fino a oggi, passando per i secoli del declino e dell’Inquisizione. La letteratura sull’argomento è sterminata, e la quantità di autori che hanno contribuito a costruirla è impressionante quanto il loro valore. L’elemento comune a tutti questi rilievi è l’assunto per cui Roma, per il suo essere da sempre epicentro del potere (di quello imperiale, di quello spirituale, di quello politico), permette ai suoi abitanti di godere di una licenza speciale che li rende non-punibili, e dunque impuniti, e dunque corrotti e dannati. Che a corrompere e a dannare sia proprio Roma, cioè la città, il luogo, lo spazio, è sottinteso, quando non esplicitamente asserito: «Vivere a Roma è un modo di perdere la vita», è uno dei tanti aforismi che Flaiano ha dedicato alla sua città adottiva — che pure, come ben sappiamo, egli amava. Da qui, com’è ovvio, deriva una vulgata tenace e aggressiva che, spogliata di ogni valenza letteraria, identifica dritto per dritto nella città di Roma la sorgente di tutto il marcio che zampilla dal clero, dalla politica, dal clientelismo, dalla burocrazia, dall’affarismo senza scrupoli, dall’elitismo intellettuale, dal baronato universitario, dal mondo dello spettacolo — praticamente da tutto ciò che produce scandali in Italia e in tutta la cristianità: tanto che nel mazzo delle citazioni antiromane ha trovato cittadinanza anche quel rozzo «Roma ladrona» inventato dai leghisti che pensano soltanto a riprendersi con la mano sinistra le tasse che sostengono di pagare con la destra.

Davanti a tutto questo la prima cosa che bisogna chiedersi è se sia veramente così. Roma è davvero questo postribolo, è davvero il luogo della perdizione e dell’indolenza, del menefreghismo e del parassitismo, dove se magna a ufo senza nulla produrre? Vivendoci e lavorandoci da quasi trent’anni mi verrebbe da dire di no, che si tratta solo di un morto luogo comune che continua a emanare la propria luce proprio per la siderale distanza che separa Roma da chi lo alimenta. Perché una cosa è sicura: in Italia ci sono milioni di persone che credono davvero che i romani non lavorino, ma si tratta principalmente di persone che a Roma non mettono piede. E com’è imbarazzante constatare la dabbenaggine con cui tanti di loro (persone sotto altri aspetti anche molto evolute, colte, educate e intelligenti) sono realmente convinti che a Roma non si possa andare a cena fuori senza ordire trame di potere o aggiustare impicci in sfregio alla legalità: la loro fede nel luogo comune è talmente incrollabile che non vale nemmeno la pena tentare di scalfirla, né si può cercare di spiegare loro quanto la faccenda sia in realtà assai più complessa, dato che questa spiegazione è impossibile da dare a chi non serbi nel proprio cuore almeno una minima curiosità sull’argomento. Molto meglio, in questi casi, dirottare la conversazione sullo scandalo attivo in quel preciso momento nella loro terra (la banca che porta il nome della loro città che ha polverizzato la loro ricchezza, il giro di tangenti che ha accompagnato la realizzazione del loro aeroporto o l’arciprete che ha violentato per sei anni i chierichetti), e rientrare così nel generico e fondamentalmente inconcludente campo giuridico della chiamata in correità: con l’accortezza però di non spingere troppo in là nemmeno questa argomentazione, poiché prima o poi l’interlocutore trova un punto di ribaltamento con cui riesce a ricondurre anche le proprie vergogne locali a una sorgiva responsabilità romana.

E tuttavia, detto della pochezza rivelata da questa cieca fede nell’assunto della Roma ladrona, bisogna anche dire che nulla di ciò che viene imputato a questa città è inventato o falso. È vero che nel cuore di Roma (ma anche nei suoi organi periferici) pulsa una potente batteria corruttiva, e che il pericolo maggiore in chi vi cresce o vi si trasferisce è quello di perdervi per così dire l’innocenza. Di nuovo, anche qui, si potrebbe subito prendere il bivio del «così è dovunque», perché la verità è che qualunque posto è buono per scoprirsi corrotti, ma è meglio affrontare frontalmente la questione. A Roma, è vero, il rischio di «smarrire la via» è alto e costante, in forza proprio di quella secolare tradizione di mollezza che l’accompagna, ma è anche vero che ad alimentare questo rischio e questa tradizione è l’ingorgo di funzioni che, essa sola, si ritrova a svolgere. Non esiste infatti nessun’altra città in tutto il mondo che sia contemporaneamente metropoli, capitale, città d’arte e città sacra: ognuna di queste identità vi concentra funzioni ingombranti e poteri immensi che metterebbero a dura prova città anche molto più strutturate — tenendo conto che, dalla fine dell’epoca imperiale all’unità d’Italia, cioè per circa millequattrocento anni, Roma è stata solo una cittadina aruvinata piena di orti e di chiese, con una popolazione assai contenuta e una struttura urbana oltremodo fragile e vetusta. È questa inaudita concentrazione di funzioni, dunque, che attira a Roma da tutto il mondo ciò che nel luogo comune si sostiene sia Roma a spargere nel mondo, e alla fine succede che quando un potente si tiene lontano da Roma, quella distanza viene automaticamente trasformata in stigma di onestà e di laboriosità.
Prendiamo l’ultimo dei potenti, in senso cronologico: Matteo Renzi. Il fatto che non resti mai a dormire a Roma, e che di recente abbia convocato la nuova segreteria del Partito democratico direttamente a Firenze, ha giovato molto alla sua immagine di uomo fuori dai giochi romani , anche se è evidente che queste sue scelte sono dovute a ragioni di natura logistica: poiché continua a essere sindaco di Firenze, deve evitare che l’incarico di segretario del partito lo allontani troppo dai suoi doveri locali; inoltre, da padre di famiglia quale sono, mi sento di aggiungere che in questo modo, pur se di sfuggita, egli può ancora frequentare la sua famiglia, baciare in fronte i figli addormentati, scambiare qualche battuta con la moglie in cucina — tutte cose che, queste sì, hanno una grande importanza per impedire a un uomo di smarrirsi nel proprio potere. Ma accade che tra gli italiani fermamente convinti dell’essenza peccaminosa che trasuda dalle pietre di Roma, il suo diventa un negarsi al molle abbraccio della città corrotta, e viene registrato come un titolo di merito: giustamente, a nessuno è saltato in mente di considerare Firenze la città di Denis Verdini o la Toscana la terra di Licio Gelli e della massoneria occulta. Così come, pur se palesemente dettata dalle medesime ragioni logistiche, anche la sua decisione di convocare la prima segreteria del suo mandato alle sette e mezzo del mattino è stata salutata come una picconata all’ozio e alle comodità da cui si crede — si sa — essere accompagnata la vita nella capitale, e a nessuno è capitato di considerare che alle sette e mezza del mattino milioni di romani sono già svegli da un pezzo e affollano autobus e metropolitana, oltre che intasare le strade consolari, per raggiungere il posto di lavoro come in qualsiasi altra grande città del mondo. La comune percezione, in questo caso, scavalca di slancio i dati di realtà, li rende invisibili ed esalta solo quell’idea di rinnovamento che Renzi proietta attorno a sé con grande energia: il suo rapporto con Roma non c’entra nulla, ma poiché, per ragioni del tutto comprensibili, esso si mantiene per ora entro i confini di un non-rapporto, questo fatto finisce per acquisire una valenza morale. Probabilmente alla sua prima apparizione su una terrazza del centro si sentirà dire che anche lui si è perduto.
Tuttavia, per riportare il discorso su quella complessità di cui è così difficile parlare quando si parla di Roma, ecco tendersi la mano del grande rivoluzionario di questi nostri tempi, e cioè papa Francesco: penalizzate dalla festività che non ha fatto uscire i giornali la mattina successiva, le sue parole del 31 dicembre obbligano a considerare Roma nella sua complessa, per l’appunto, e irrisolta identità metropolitana. Roma, ha detto il Papa, «è una città di una bellezza unica, ma ci sono tante persone segnate da miserie materiali e morali», «povere, infelici, sofferenti, che interpellano la coscienza di ogni cittadino»: a Roma, ha aggiunto, «sentiamo più forte il contrasto tra l’ambiente maestoso e il disagio sociale di chi fa più fatica». Parole semplicissime nella forma e nel contenuto che però spazzano via di colpo il luogo comune e identificano il cuore del problema.

Problema che poche settimane fa, su queste stesse pagine, ho cercato di affrontare mettendo a confronto due recenti e bellissimi film ambientati a Roma: La grande bellezza di Paolo Sorrentino e Sacro GRA di Gianfranco Rosi. A fronte di tutte le implicazioni storiche, sociologiche, estetiche e antropologiche che la loro visione comporta, mi sforzavo di radunare le idee su questa doppiezza di Roma nel campo, ahimè oggi poco guarnito, dell’urbanistica: da una parte la città eterna, da secoli ormai museo di se stessa, abbacinante, solenne e sterile, quinta immutabile della decadenza di cui Roma è l’emblema da duemila anni, e dall’altra la città invisibile, effetto collaterale di una mera infrastruttura, nata dal fallimento delle utopie che non sono mai riuscite a rendere il presente degno del passato. Pur nel suo aspetto miserabile, dicevo, pur nel degrado e nel disordine che essa si trova a produrre, è questa seconda Roma a riscattare la prima, dandole l’unica identità contemporanea che possieda, che aspetta solo di essere vista, tanto per cominciare, e poi accettata, capita, regolata, immaginata, governata, per poter finalmente parlare di Roma fuori dal luogo comune che la imprigiona. Arricchito nel frattempo dalla lettura del formidabile libro che ha ispirato il film di Rosi, Sacro Romano GRA , di Sapo Matteucci e Nicolò Bassetti, pubblicato da Quodlibet — breviario metropolitano, portolano dell’abbandono, atlante della incoercibile, quasi metafisica energia della periferia romana —, non posso che approfittare dell’assist di papa Francesco per ribadire lo stesso concetto, allo scopo di dare a Roma quel che è di Roma: innanzitutto vediamola , questa città, come quel tutt’uno che è veramente, senza banalizzarla in concetti separati come se quella separatezza fosse un dato di fatto, mentre è soltanto una scelta dettata dal pregiudizio, dalla pigrizia e dall’impotenza di chi non è mai riuscito a concepirla in un intero; dopodiché, quando avremo cominciato a considerarla nella sua identità unica al mondo, verrà naturale anche la semplice, quotidiana, rivoluzionaria azione di collegamento auspicata dal Pontefice — inteso qui non tanto come pastore, ma come urbanista. Quando quell’azione verrà avviata, e il rapporto tra l’invisibile e il fin troppo visto comincerà a equilibrarsi, prendere le distanze da Roma non sembrerà più un’azione morale, così come abbracciarla non sarà più un sintomo di perdizione — e soprattutto potremo finalmente cominciare a descriverla al netto di un luogo comune che a quel punto si mostrerà improvvisamente non più praticabile, perché non più vero.
A proposito del quale, mi corre l’obbligo di dire che nel tempo impiegato a scrivere queste righe mi si è prodigiosamente aperto uno spiraglio nella memoria, che riconduce il detto citato all’inizio, «più vicino sei a Roma, più lontano sei dal cielo», a padre Girolamo Maria Moretti (1879-1963), francescano appartenente all’ordine mendicante dei minori conventuali, fondatore della grafologia moderna (a lui è intestato l’Istituto Grafologico di Urbino), genio della psicologia diagnostica nonché mio prozio — ragion per cui ho letto in prima edizione molti suoi libri, e soprattutto ho conosciuto quel motto fin da piccolo come uno dei suoi preferiti. Lo zio Umberto, come lo chiamava mio padre: uomo straordinario, tanto nei racconti di famiglia quanto nei riscontri storici e bibliografici, autorità indiscussa in campo grafologico e sacerdote di vigoroso nerbo morale — intelligentissimo, colto, esperto di uomini e di donne, e tuttavia anch’egli prigioniero di quel ribrezzo per Roma che, in mancanza di un’alternativa condivisibile, ottunde tante belle menti anche oggi, insieme a quelle meno belle.
Diamogliela, maledizione, quest’alternativa.