Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 13/1/2014, 13 gennaio 2014
TRA COMUNISTI, DISEGNI BISCHERATE E CACIUCCO
[Paolo Virzì]
La corazzata Potëmkin non era una cagata pazzesca: “Ma un magnifico film” e delle luci spente nella sala del Centro Sperimentale di Cinematografia l’allievo Paolo Virzì non ha dimenticato la lezione: “Quando scrivo una storia preferisco sentirmi un ignorante. Uno che è al buio. Uno che non ha opinioni, ma le cerca”. Accadeva a vent’anni: “Quando a me, sorta di pudico, quasi vergine, noiosissimo secchione che arrivava dalla provincia e nulla sapeva dei maestri, Roma sembrava un’orgia permanente, un meraviglioso bordello bohemienne in cui non si dormiva mai” e succede oggi, alle soglie dei 50, in un ufficio francamente anonimo colmo di acquerelli, sigarette ed essenzialità ai confini col pauperismo. Prestando l’ironia feroce di ieri: “Ho girato il mio affresco più maturo? Sto diventando vecchio, d’ora in poi saranno sempre più assennati” al servizio di uno sguardo analitico sull’ambizione degli esclusi, ne “Il capitale umano” Virzì ha messo in scena un abisso in cui colpevoli e innocenti vestono la divisa unica dell’infelicità e in marcia, si confondono tra loro. Per adattare con Francesco Bruni e Francesco Piccolo il romanzo di Stephen Amidon (storia di due distinti nuclei familiari del Connecticut uniti dal sogno del guadagno facile e della scommessa sulle macerie del presente), il figlio di “Ciccio” il carabiniere e Franca la cantante è stato fedele all’ancestrale melodia dei rapporti sociali. Prove di forza, effimere illusioni, piaggeria senza pudore, lampo megalomane e Buddenbrook in sedicesimo che affrontano la decadenza tirando la trama di un profitto che svanisce e per non evaporare, ha assoluto bisogno di essere drogato. Nei fumi della finanza creativa qualcuno si perde, altri si abbandonano, altri ancora si svendono. Nella prima scena si scorgono camerieri indaffarati a riporre masserizie e avanzi di una festa, ma vedere ad ogni costo l’Italia contemporanea nei simbolismi da dispensa svuotata, nelle nevrosi del laido alchimista di borsa Fabrizio Gifuni o nelle maldestre velleità da nuovo ricco di Fabrizio Bentivoglio è troppo facile e, adombra Virzì, di dubbia buona fede: “La bellezza del mio mestiere è l’assenza di giudizio. E ai miei protagonisti risparmio il calvario del preconcetto etico. Se sono maschere, ho bisogno che vivano davvero e non siano fasulle perché mettere in scena le proprie convinzioni è poco stimolante, incasellare i buoni e i cattivi in due diverse file non mi è mai interessato e il confine tra l’umano e il disumano è labile. Non presiedo una Corte d’Assise e non condanno. Mi sforzo di rendere il mio personaggio una persona autentica, spogliandomi delle letture ovvie e abitudinarie, cercando di capire come si consideri rispetto al mondo e cosa gli passi per la testa. È una sana attività artigianale. Se ne seguo le tracce con pazienza sarà lui a darmi la risposta, definirsi, suggerirmi la conclusione e il senso del racconto”.
Altrimenti?
Questo paziente lavoraccio di tessitura, da sartini dell’ordito sui personaggi e sulle psicologie viene dimenticato e si parla d’altro.
Nel suo film in molti hanno visto una metafora dell’Italia devastata. Una delusione?
Un equivoco. Mi telefonano per chiedermi un’impressione su Renzi o sulla Legge elettorale, mi travestono da maitre a penser capace di descrivere il proprio tempo, mi rivolgono accuse curiose. Belpietro ha fatto scrivere che ho preso un milione e mezzo di euro dal Monte dei Paschi. Come se me li avessero regalati.
Non è andata così?
Ma scherza? Ho utilizzato una legge che si chiama Tax credit, sono andato in banca, ho presentato un progetto, lo hanno valutato e dopo me li hanno prestati riprendendoseli con gli interessi.
Come nel suo film, si parla sempre di denaro. Che orienta l’universo e nel libro di Amidon inclina definitivamente i destini dei meno fortunati.
Uno dei protagonisti del libro si uccide. Io ho fatto un’altra scelta e ad Amidon l’ho rivelato subito: “È l’unica cosa che non riuscirei a filmare”. Furio Scarpelli, il mio maestro, lo diceva sempre: “Perdoniamo solo Germania anno zero. Cercare di commuovere gli spettatori facendo morire un bambino è una scorciatoia pericolosa”.
Ne “Il capitale umano” la quantità di morti viventi è comunque impressionante.
Ci sono molti poveri cristi che si negano la realtà, fingono di non vedere e piegano la testa. E ce ne sono altri che perseguono stolidamente un loro stolto vitalismo. Ognuno dei miei personaggi ha colpe e zone d’ombra, ma individualmente cova ottime ragioni per non fermarsi di fronte allo scrupolo morale. Il discrimine tra continenza e violenza è sottile. La Santabarbara accesa. Sono tutti pronti a trasformarsi in belve. La quieta, viziata dama Bruni Tedeschi vorrebbe sbranare l’automobilista troppo lento che la frena. Gli ostacoli vanno rimossi.
Nella loro solitudine, ripugnano e al tempo stesso incuriosiscono anche i figli di puttana conclamati.
Dino Ossola, Bentivoglio, non sa di essere un mostro. Bernaschi, Gifuni, nel suo autismo da conquista si sente come Atlante. Sono persone come noi. Le conosciamo. Le incontriamo tutti i giorni. La vita ti porta ad agire e non sempre ti offre indizi su giusto e sbagliato. Lo stabilisci a posteriori, spesso troppo tardi. Alla radice della scrittura con Piccolo e Bruni c’era l’idea di non indulgere a dolcezza o affetto. Cercavamo un’inquietudine, un sorriso beffardo, una temperatura più fredda, uno spavento di fondo. C’è un’unica scena girata con pathos e se devo riconoscere un’ispirazione generale, ho guardato alla comicità ebraica, ai Coen, a certe cose di Ang Lee.
Registi che lavorano con l’atmosfera. Con il paesaggio.
Una delle fasi più affascinanti di un film è il sopralluogo. Oltrepassi portoni e cancelli ignoti, entri in un altro mondo. Prima di trovare il luogo giusto abbiamo visto un’infinità di ville lombarde, tra i proprietari non ce n’era uno che non avesse la residenza fiscale in Svizzera.
Si stupisce?
Siamo adulti, ma mi pare che il dato racconti molto di cosa sia diventata la borghesia italiana. Nel Capitale umano la questione del paesaggio spiega più di qualsiasi considerazione sociologica. Un giorno abbiamo filmato nei pressi di un borgo rurale completamente abbandonato. Bellissimo. La middle class l’aveva desertificato trasferendosi a valle, in tante piccole new city, in comprensori di villette a schiera con lo stesso disegno della villa padronale, ma in chiave meschina. Avevamo la bellezza e il territorio. Adesso abbiamo le piscine grandi come aiuole, il desiderio di emulazione, i formicai e le sbarre alle finestre. Magari, un po’ della nostra angoscia, nasce proprio da lì.
Della sua ricorda qualcosa?
Lo sgomento al corso d’ammissione al centro sperimentale. A dover scrivere un saggio su un episodio dell’Oro di Napoli di De Sica, quello in cui la Mangano fa Teresa, la puttana illusa dal matrimonio, eravamo tantissimi. Finisco il compito e per deformazione professionale inizio a disegnare il ritrattino di uno degli esaminatori. Passa Scarpelli che non conoscevo e con i suoi occhietti strizzati vede Leo Benvenuti, omone, grandissimo sceneggiatore, antico esemplare di antico romano nella mia caricatura.
Scarpelli la cazzia?
Si ferma e fa: “Il naso è troppo lungo, da dove vieni te?”. “Livorno”. Poi prende la matita, restituisce divinamente le corrette proporzioni a Benvenuti e se ne va. A quel punto, in attesa dell’orale torno a casa scoraggiato: “Mamma, son tutti raccomandati, qualcuno pure da Andreotti, non ce la farò mai”.
Ed era vero?
Verissimo. Quel che non sapevo è che sgrammaticata, ingenua e a tratti esilarante, una lettera di raccomandazione dei compagni di Livorno la possedevo anch’io. Avevo fatto un pessimo scritto, mi ero salvato con la vignetta garantendomi un’improbabile ammissione e appena mi sedetti, ultimo in ordine alfabetico davanti a Scarpelli, Amelio e Montaldo, Giuliano tirò fuori una busta e spietatamente iniziò a leggere: “Caro compagno Montalto”. Pure il nome gli avevano storpiato.
Il resto?
“Ti segnaliamo il giovane e valoroso compagno Virzì”, cose così. Ero uno studente lavoratore e frequentavo il cinema dei portuali, il Quattro Mori. Mi scappò una riflessione pessimistico-vittimista sull’esito degli esami con Alberto Forti, uno degli animatori. Conosceva Montaldo dai tempi de “L’Agnese va a morire” prese l’iniziativa e così mi ritrovai raccomandato a mia insaputa. All’esame parlammo solo di Livorno, Montaldo era allegro: “Ci hai fatto ridere, mi sa che ti prendiamo”.
Primi mesi romani?
Una casa divisa con l’allieva di recitazione Francesca Neri al Nuovo Salario, un semi interrato molto interrato dormendo in una piazza e mezzo con Bentivoglio, squallide settimane all’hotel Sole, una pensione in cui pagavo tremila lire a notte, la casa di Trastevere in cui non si vedeva Trastevere e in cui non a caso Volontè che me l’aveva affittata si era preparato a interpretare Aldo Moro e i tanti nomi degli angoli di città legati a una geografia toponomastico-sentimentale. Vicolo Del Bollo. Via dei Cappellari. Piazza Farnese. Roma era fantastica e molto diversa. In pieno centro abitavano quelli con le pezze al culo.
Si divertì, ci ha detto prima.
Moltissimo. In anni di fanatismo filmico e di feticismo del piano sequenza preferibilmente muto, mi sentivo uno che arrivava dal popolo e giocavo a fare l’anticinefilo. Aggredivo verbalmente i fighetti del Dams e cresciuto con i libri di Dickens e Bukowski, trovavo in Roma, finalmente, il corrispettivo romanzesco.
E il lavoro con Scarpelli. Con Sordi. Con Leone. Con Francesca Archibugi e Dudù La Capria.
Iniziò tutto nel 1985, l’anno in cui per il cinema italiano, con la separazione tra Age e Scarpelli si verificò l’orribile catastrofe. Furio mi chiamò a bottega. No so se per pena, per simpatia o perché ero di Livorno e con Suso Cecchi D’Amico, negli anni belli, le estati a Castiglioncello erano state azzurre. Ero il classico provinciale insicuro. Goffo come tutti quelli che non sanno fare un cazzo, tentano di nascondere l’accento e delle loro origini, un poco si vergognano. Scarpelli mi spronò a riappropriarmi della mia identità, a farne maschera artistica, a riprendermi la voce: “Sei di Livorno, qualcosa vorrà dire”.
Livorno, sempre lì si torna. Ai suoni del quartiere Le Sorgenti, un posto in cui il saluto più soave, secondo Giorgio Algranti era: “Budello di tu ‘ma”. Musica anche a casa. Sua madre Franca cantava con Piero Ciampi. Suo padre Francesco era il cugino di Claudio Villa.
Lei intonava qualsiasi cosa e mio padre la registrava durante le esercitazioni casalinghe. Mamma era bravissima, ma rinunciò al mondo dello spettacolo che non le garbava, per fare la madre e la commessa in un negozio di abbigliamento. Ipocondriaca, forse mi avrebbe voluto medico, ma l’unico mestiere che ho affrontato e che mi sarebbe piaciuto fare era il maestro elementare. Con Papà che è morto quando avevo 18 anni, il rapporto è stato alterno. Era carabiniere e qualche seggiolata ai tempi della mia infatuazione anarchica volò. Ma era curioso, sorpreso dei buoni voti che ricevevo a scuola e andava a parlare con i professori per farsi fare i complimenti. Forse non ce lo siamo mai detti, ma ci volevamo molto bene. Poi è chiaro, in ogni famiglia pulsa un desiderio di evasione. Lo sforzo, anche espressivo, era uscire da se stessi, non guardarsi l’ombelico, vedere se oltre la finestra si agitava qualcosa.
A casa i soldi erano pochi.
Livorno è plebea e io non facevo eccezione. Ero uno studente di famiglia modesta che d’estate giocava a pallone nei gabbioni e più grande, per arrotondare lavorava. L’ho fatto un po’ ovunque. In fabbrica, alla tessuti Barcas, cameriere tra i tavolini di un bar, guida turistica agli americani sugli autobus, perito dei container in porto e persino bibliotecario della neonata Fondazione Antonicelli che Franco, sommo collezionista, maniaco bibliofilo e intellettuale torinese einaudiano del gruppo di Bobbio innamorato dei portuali livornesi, aveva reso indispensabile con il suo generoso lascito. Una volontà testamentaria tradotta in migliaia di volumi che sotto lo sguardo di Italo Piccini detto Polverina, il vero capo morale e spirituale della città, una figura mitologica, un po’ Vescovo e un po’ Sindaco che ai tempi belli aveva issato una bandiera vietnamita su una Portaerei americana, contribuito a ricostruire il porto, aperto in loco la biblioteca su impulso di Antonicelli e coperto la pelata con un coraggioso riporto, venni chiamato a gestire insieme ad altri ragazzi. Il regalo di Antonicelli a Livorno andava dai preziosissimi carteggi di Gozzano alla lettera autografa di Pavese che annunciava agli amici l’intenzione di suicidarsi. Noi catalogavamo e Italo ci dava la paghetta. Il rapporto divenne stretto. Quando seppe della missiva di raccomandazione farlocca spedita dai quelli del Quattro mori per il “valoroso compagno Virzì” rimase male: “Ho parlato con Kruscev e con Berlinguer, non potevo darti una mano io?”.
Con i canadesi, ai tempi di My name is Tanino, non avrebbe
potuto nulla neanche Piccini.
Venivo da tre film con Vittorio Cecchi Gori, più o meno la major italiana di allora. Partii per fare questo film bischero, un omaggio alle suggestioni letterarie di Gianni Celati, alla comicità rocambolesca e alla stupida ebbrezza dei vent’anni con un budget importante e più camion che a un concerto dei Pink Floyd. Le Unions americane, i sindacati, imponevano standard folli. Avevo sei assistenti di cui uno mi seguiva anche al cesso. Finché rimanemmo a New York andò tutto bene, poi in coincidenza con la terza settimana di lavorazione e con il trasferimento a Toronto, Vittorio venne travolto dai suoi guai finanziari. Nessuno mi disse una parola fino a quando due settimane più tardi, in mancanza dei soldi per la troupe, il film si bloccò. Gli stabilimenti sequestrarono il negativo e gli albergatori, temendo l’insolvenza, presero in ostaggio la troupe. Li vedevi transitare come zombi nella hall. Gli occhi cerchiati dalla fruizione ossessiva del canale porno, bloccati in una città straniera senza un soldo mentre da Roma continuavano a dirci di stare tranquilli: “Domani si risolve tutto”.
Mañana siempre mañana.
Ero tra i pochi a dormire in appartamento e tra i pochissimi ad avere una carta di credito. Facevo spese pazze al supermercato e sfamavo i naufraghi con il Cacciucco. Alla fine i dollari arrivarono, ma solo per la liberazione. Ora ne rido, ma fu terrificante. Rincasammo sconfitti. Ci fermammo per mesi, poi tornammo in America per girare in incognito e sotto falso nome alcune scene in puro guerrilla style. Con il nome di uno studente della scuola di cinema locale sul ciak per aggirare gli obblighi sindacali. Senza un soldo, una comparsa, un permesso. Cambiammo il copione, stravolgemmo il finale e io e la troupe diventammo fratelli di sangue per la vita. A Toronto avevamo vissuto in presa diretta l’abbandono. Sembrava di essere nello Stato delle cose di Wenders in cui Fritz, il regista protagonista, attende invano il ritorno di Gordon, il produttore che si è reso irreperibile e la troupe bivacca nell’albergo semidistrutto. Quell’avventura ci fece desiderare di ritrovarci ancora vicini nella traversata successiva.
La famiglia allargata di Virzì. L’amico degli attori, dei macchinisti e dell’ultimo dei runner.
Gli attori sono creature fragili, durante il lavoro tendo ad amarli molto. Ad assecondarli.
E dopo?
Non so. Mastandrea e Silvio Orlando mi hanno fatto notare che a film finito, sparisco. Si sentono abbandonati. Orfani. Ci rifletto, ma la anticipo. Una risposta pronta sulla sindrome del regista egoista, io non ce l’ho.