Alessio Schiesari, Il Fatto Quotidiano 13/1/2014, 13 gennaio 2014
47MILA VIGILANTES: L’ESERCITO PRIVATO
Le armi da fuoco delle guardie giurate hanno ucciso più di trenta persone negli ultimi dodici mesi. Non rapinatori o vigilantes morti in servizio, ma mogli separate, vicini di casa litigiosi, bambini che giocano con l’arma di papà e, soprattutto, tantissimi suicidi. L’ultimo episodio risale al 21 dicembre, quando una guardia giurata disoccupata di Latina ha ucciso la moglie, una donna rumena e ha ferito altre due persone. Tre giorni prima, a Novara, un 55enne aveva preso la pistola d’ordinanza alla moglie , l’ha uccisa e si è suicidato. A novembre, vicino a Trieste, un vigilante si è sparato alla tempia. Ad agosto, ad Avellino un ex vigilante è entrato nella casa del vicino, l’ha ucciso e ha ferito gravemente figlio, convivente e nuora incinta. A febbraio, a Firenze un metronotte disoccupato da un anno si è tolto la vita: era il terzo nel giro di pochi giorni. L’elenco è destinato ad allungarsi ancora. Negli ultimi trent’anni sono ottanta i vigilantes uccisi in servizio, lo stesso numero di morti che le armi di ordinanza fanno dentro le mura domestiche in appena 36 mesi.
Contratti da miseria
Trasporto valori, piantonamenti, ronde notturne: i compiti delle guardie giurate sono simili a quelli della polizia tradizionale. Con 47 mila effettivi sono la sesta forza armata del Paese. Quasi sempre sono arruolate con contratti precari e stipendi da fame: 1.020 euro lordi al mese. L’ultimo rinnovo del contratto nazionale prevede un aumento di 60 euro spalmati su sette anni. La formazione praticamente non esiste: per diventare vigilante basta essere incensurati e ottenere il porto d’armi. Non è previsto alcun test attitudinale, sull’uso di stupefacenti o psico-fisico, solo un corso di quattro ore dentro a un poligono di tiro, al termine del quale si diventa automaticamente guardia giurata. È lo stesso vigilante a dovere acquistare la pistola, che rimane in suo possesso anche in caso di perdita del lavoro. I sindacati da anni chiedono invano che le armi siano a carico dagli istituti di vigilanza e che questi le custodiscano in caso di licenziamento. Così, in rete si trovano perfino forum in cui le guardie giurate che hanno perso il posto offrono le loro pistole. “Lo Stato sta armando un esercito di disperati”, spiega Roberto Pau, segretario nazionale dell’associazione di categoria Anggi. “Purtroppo non c’è da stupirsi se uno, dopo il lavoro, perde anche la testa e comincia a sparare”, gli fa eco la collega Sabrina Cioli.
Ma è tutto il settore ad essere un ginepraio. A ottobre la Gdf ha scoperto un ammanco di 29 milioni di euro in un caveau di Silea, nel trevigiano. A gestirlo era la North East Services di Luigi Compiano, uno dei più importanti imprenditori della sicurezza a livello nazionale. Secondo gli inquirenti, Compiano svuotava i caveau per riempire di auto quattro magazzini di Villorba, dove le fiamme gialle hanno trovato 400 veicoli, oltre a 70 imbarcazioni ormeggiate in giro per l’Italia. Per i 671 lavoratori è stata avviata la procedura di mobilità. Quello di Nes è un caso limite, ma non l’unico. A novembre, Banca d’Italia ha chiesto il blocco di tutte le attività della Ipervigile di Nocera Inferiore perché durante una verifica ha riscontrato un ammanco di 400 mila euro in uno dei caveau gestiti dalla Bsk Service, una controllata del gruppo. Poste Italiane e le altre banche che si affidavano a Ipervigile hanno svuotato i caveau e i 157 lavoratori, che non vedono lo stipendio da sei mesi, sono a un passo dal licenziamento.
Anche Palazzo Koch ha capito che la situazione è fuori controllo quando, durante l’ultima ispezione su un terzo delle società di contazione (cioè quelle autorizzate a custodire il contante delle banche), ha riscontrato irregolarità nel 75% dei casi. “Il fatto che chi gestisce il vostro contante abbia l’autorizzazione di pubblica sicurezza non significa che sia a posto con le regole. Approfondite, fate verifiche anche voi”, ha detto, rivolto alle banche, Vincenzo Acunzo, coordinatore dell’Unità organizzativa per la vigilanza privata presso il ministero dell’Interno. In altre parole è lo stesso Viminale ad ammettere che è meglio non fidarsi dei controlli, perché non valgono nulla.
L’autorizzazione è compito del prefetto. Il titolare della licenza (in Italia sono circa 900) deve essere incensurato e avere cinque anni di esperienza nel settore o avere frequentato un master. “Il problema è che dietro al titolare della licenza c’è quasi sempre qualcun altro che comanda”, spiega Cioli.
Nei mesi scorsi si è conclusa la vicenda degli istituti di vigilanza Nuova Città di Roma società cooperativa e Metronotte città di Roma, assegnatari di molti appalti della Regione Lazio nella capitale, tra cui vari ospedali e il 118. Consulente esterno dei due istituti è Fabrizio Montali, figlio dell’ex sottosegretario socialista Sebastiano, poi passato in Forza Italia.
Montali (come ha confermato al Fatto il suo legale) è appena uscito da un processo in cui risultava coimputato assieme all’ex tesoriere della banda della Magliana Enrico Nicoletti, il Secco di Romanzo Criminale. Tra i dodici capi d’accusa contestati c’erano il riciclaggio di denaro e l’intestazione fittizia di beni. Varie accuse sono cadute, ma l’8 novembre Montali è stato condannato in primo grado a 18 mesi di reclusione per usura. La società replica: “I fatti per cui Montali è stato condannato sono precedenti alla nascita del rapporto di consulenza e non vi è alcun legame tra le due cose”.
Talvolta si è arrivati alla revoca della licenza. È il caso della International Security Service dei fratelli Buglione che per oltre vent’anni hanno gestito l’impero della vigilanza campana.
Se anche la revoca è inutile
Anche quando arriva, la revoca è spesso inutile: le stesse persone riaprono con una ragione sociale diversa, magari dopo avere coperto di debiti la vecchia società. Un meccanismo conosciuto perfettamente dal gruppo Union Delta: a settembre un blitz della Gdf ha portato all’arresto di dieci dirigenti del network di sicurezza, cui fanno capo 14 istituti di vigilanza che davano lavoro a mille guardie. L’accusa è di associazione a delinquere finalizzata alla frode tributaria: le società del gruppo, che avrebbero sottratto al fisco 38 milioni, venivano caricate di debiti e fatte fallire, cedendo gli appalti ad altri istituti gemelli.
La stessa tecnica utilizzata, secondo gli inquirenti, dalla napoletana Civin Vigilanza: i proprietari - secondo l’accusa - avrebbero caricato di debiti con il fisco l’Istituto Nuova Lince e avrebbero trasferito immobili, dipendenti e appalti alla neonata Civin, vendendo la vecchia Lince a una società di Hong Kong, con lo scopo, secondo gli investigatori, di depistare il fisco.