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 2014  gennaio 13 Lunedì calendario

SONO ANDATO A SBATTERE CONTRO LA MAFIA HO SBAGLIATO A FREQUENTARE CERTE PERSONE


Gliel’avessero detto quando era un giovane dirigente della Democrazia cristiana siciliana, che un giorno avrebbe dedicato un libro a Marco Pannella, non ci avrebbe creduto neanche lui. E nemmeno una decina d’anni fa, quando era governatore dell’isola eletto con quasi due milioni di voti nell’alleanza di centrodestra. Invece è successo: sul frontespizio del suo secondo volume pronto per essere stampato c’è un pensiero affettuoso per il leader radicale, «strenuo lottatore per i diritti dei detenuti». Glielo dedica l’autore, detenuto Salvatore «Totò» Cuffaro, matricola 87833, che in tre anni di galera ha cambiato opinione e visuale su tante cose.
«Da presidente della Regione di carcere mi sono occupato — racconta in una saletta del penitenziario romano di Rebibbia, dov’è rinchiuso dal gennaio 2011 —, forse meno di quanto avrei dovuto. Da qui però c’è un’altra prospettiva. E da qui dico che di certe leggi che ho votato, come senatore, un po’ mi vergogno: perché in nome della sicurezza abbiamo varato norme troppo restrittive, e peggiorative della situazione di tutti i detenuti, non solo quelli considerati più pericolosi. E questo non è giusto. Perché, come ho scritto nel libro, il carcere non è solo luogo di corpi, ma di anime; di uomini con le loro storie e le loro speranze. Delinquenti, d’accordo, che però hanno diritto ad avere una nuova possibilità. Ecco perché l’indulto chiesto dal presidente Napolitano sarebbe auspicabile, vista la situazione attuale di sovraffollamento. E non parlo per me, che in ogni caso non ne potrei usufruire; io ormai devo scontare tutta la pena qui dentro, e lo farò».
A dicembre il detenuto Cuffaro, primo e finora unico parlamentare finito in cella per fatti di mafia, ha sperato di poter uscire grazie alla concessione dell’affidamento in prova ai servizi sociali. Ma i giudici di sorveglianza hanno detto no, perché potrebbe collaborare utilmente con la magistratura e non l’ha fatto. E siccome per concedere i benefici la legge impone quel passaggio a chi, come lui, è stato condannato per reati che hanno a che fare con Cosa nostra, Totò Cuffaro è rimasto dentro. «Io non ho ancora capito che cosa potrei dire — insiste lui —, visto che sono solo l’anello di una catena di condannati. Mi ero illuso. Vorrà dire che avrò il tempo di laurearmi in Giurisprudenza e di scrivere un terzo libro. Ma non mi lamento».
Atteggiamento non consueto, di questi tempi, che l’ex governatore della Sicilia spiega così: «Ho scelto la strada del rispetto delle sentenze, e proseguo su quella, tanto più adesso che s’è dimostrato che non aiuta sul piano concreto. Vuol dire che non era una scelta ipocrita o opportunista, ma sincera e convinta. Io lo sapevo da prima, ora può capirlo chiunque. Mi rendo conto che per i giudici non era facile mettermi fuori, la mia vicenda è difficile da dipanare. Confidavo che fosse possibile, e magari adesso farò ricorso: non per me, che probabilmente finirò di scontare la pena prima dell’ultimo verdetto, ma per altri ai quali sarei lieto di offrire una nuova possibilità».
Il rispetto per la condanna e le decisioni dei magistrati, sebbene considerate ingiuste, deriva però da un’altra considerazione: «Io mi faccio carico delle mie responsabilità; non solo penali, ma complessive. Ho fatto parte di un sistema istituzionale con incarichi importanti: alla Regione, in Senato e al Parlamento europeo, assumendo oneri e onori; lo stesso sistema che poi mi ha messo sotto accusa, trovando gli elementi per condannarmi. Posso pensare che ha sbagliato, ma non posso contestarlo. Avessi ritenuto che il sistema fosse squilibrato o ingiusto, avrei dovuto combatterlo prima, non adesso che sono chiamato a pagare certe conseguenze. Non è che siccome la magistratura mi ha messo alla sbarra, ora posso sputarci sopra. Non sarei credibile, né sarebbe giusto».
Sono parole di un ex potente, pronunciate tra sbarre e porte blindate. E ascoltarle qui dentro fa un certo effetto. Soprattutto se paragonate a quelle che altri pronunciano fuori, di continuo. Il parallelo con Silvio Berlusconi è inevitabile. Tre anni fa, quando arrivò la condanna, Cuffaro si presentò in una caserma dei carabinieri, e per indossare subito i panni del detenuto si dimise da senatore. «Io nei confronti di Berlusconi continuo a nutrire l’affetto di sempre — racconta — ma credo che avrebbe dovuto comportarsi diversamente; doveva lasciare la carica senza aspettare che il Senato dichiarasse la decadenza, e adesso dovrebbe scontare la pena in carcere, senza chiedere l’affidamento in prova né altro. Per rispetto della sentenza, e perché anche sentendosi perseguitato sarebbe la migliore risposta: volete mandarmi in galera? Ci vado. Ma capisco che il carcere è pesante».
Insomma, secondo l’alleato dei tempi andati che ne tesseva le lodi in pubblico e in privato, Berlusconi dovrebbe farsi da parte, e arrivare alle estreme conseguenze. Un gesto di sfida? «E perché mai? Semmai di rispetto. La sua immagine ne guadagnerebbe, e sarebbe la reazione più efficace a chi ha voluto condannarlo». Ma Cuffaro ci crede alla colpevolezza di Berlusconi? «Penso che un’attenzione particolare della magistratura nei suoi confronti non si possa negare... Comunque ormai c’è una sentenza definitiva».
È lo stesso discorso che Totò Cuffaro applica a sé. Non è più tempo di discutere di colpevolezza o innocenza. «Io ho commesso degli errori, anche se non tutti quelli per cui sono stato condannato», dice l’ex governatore che secondo l’ultimo verdetto favorì il boss della cosca di Brancaccio facendogli arrivare la notizia che aveva una microspia in casa. «Io sono andato a sbattere contro la mafia — dice oggi Cuffaro — anche se ritengo di aver fatto più di qualcosa contro la mafia... Ma non mi sento una vittima, sebbene pure con me ci sia stata un’attività investigativa e giudiziaria non proprio normale. Ho sbagliato a coltivare certe frequentazioni, a fidarmi di certe persone. Ho sbagliato, oggi sarei molto più attento e guardingo. Ma se c’è una cosa di cui non sono pentito è il rapporto continuo e diretto con i cittadini e gli elettori».
E i rapporti con la mafia? «Lo ripeto, io non ho avuto rapporti con Cosa nostra, ci sono andato a sbattere, e in Sicilia può capitare. Io non volevo certo aiutare la mafia, come non credo che lo volesse il mio amico Mannino, già assolto una volta dopo tanto carcere preventivo e oggi sotto processo per la trattativa. Ricordo che mi commissionò manifesti in cui incitava a contrastare i boss “costi quel che costi”, c’era scritto». Pure lui, Cuffaro, tappezzò la Sicilia con lo slogan «La mafia fa schifo», ma non si rivelò una grande idea. Un altro errore? Cuffaro sorride: «Comunque non è facile dire quella frase quando la mafia è ancora lì».
Anche in carcere, l’ex politico già militante della Democrazia cristiana ha una certa inclinazione a rivendicare la propria storia politica: «Il panorama di oggi mi pare disastroso. Si può costruire rottamando? Meglio restaurare». Con una condanna per mafia sulle spalle anche questa frase può suonare ambigua, e Totò corre subito ai ripari: «Nei rapporti mafia-politica bisogna tagliare, non restaurare. Il restauro va fatto per le cose da salvare, non per il marcio... Comunque di mafia, magari, scriverò quando sarò uscito di qui».
Per adesso la vita dell’ex medico ed ex politico di potere, ora detenuto e studente di Giurisprudenza, è dietro queste mura altissime, quattro ore di colloquio al mese con i familiari, letture continue, l’impegno in favore dei compagni di reclusione. Cuffaro si occupa dei loro ricorsi, istanze, «domandine». E raccoglie le storie di vita del carcere: «Qui c’è gente straordinaria, di grandissima umanità, ergastolani senza speranza che dopo il rigetto della mia richiesta venivano a consolare me che ho la fortuna di avere una famiglia meravigliosa e qualche prospettiva per il futuro. A differenza loro. Non si può considerare il carcere solo come un luogo a perdere, dove abbandonare le persone. Non è giusto per loro, e nemmeno per la società. Il governo con l’ultimo decreto ha fatto qualcosa che può essere utile, ma ci sarebbe molto altro da fare. Non ve ne dimenticate».
Giovanni Bianconi