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 2014  gennaio 13 Lunedì calendario

IL RISCHIO DELL’INDEBITAMENTO CINESE L’ALTRA FACCIA DELLA GLOBALIZZAZIONE


Sembra uno scherzo parlare di crisi di liquidità in un Paese come la Cina che ha riserve di valuta straniera per oltre 3.660 miliardi di dollari e un fondo sovrano, il Cic (China Investment Corporation) nella cui cassaforte il governo ha infilato 575 miliardi di dollari. Ma per due volte, l’anno scorso, prima a giugno e poi a fine dicembre, le banche della Repubblica popolare hanno quasi smesso di prestarsi soldi tra di loro, facendo schizzare i tassi interbancari a sette giorni quasi al 9%. È intervenuta la banca centrale con una bella iniezione di svariati miliardi e il mercato si è stabilizzato tornando sul 5%. Ora suona il gong per un altro round di turbolenza: non riguarda le banche (in Europa sappiamo bene che di solito «sono troppo grandi per fallire») ma il sistema di prestiti P2P, che vuol dire «peer-to-peer». E, secondo i dati raccolti dal Financial Times , sta saltando.
Non è un caso che tutti questi sistemi innovativi per muovere denaro abbiano nomi in inglese, la lingua della deregulation. Ma stanno mettendo radici anche in Oriente. Il metodo P2P è composto da siti web che, per una commissione bassa, mettono in contatto privati che vogliono investire con altra gente che ha necessità di prendere in prestito piccole somme: «peer-to-peer», più o meno da pari a pari. Nell’economia di mercato «con caratteristiche cinesi», che impone grandi restrizioni al sistema finanziario, il P2P ha avuto un boom: i mediatori online si sono lanciati nel business di trovare creditori disposti a fare prestiti ai piccoli e piccolissimi imprenditori. Questi ultimi felici di trovare finanziamenti e i primi soddisfatti di ottenere tassi che le banche non possono dare.
Il mercato «peer-to-peer» valeva solo 30 milioni di dollari quando è sbarcato in Cina nel 2009. Si è moltiplicato per trenta e nel 2012 ha mosso 940 milioni di dollari. Le previsioni sono (erano?) per quasi otto miliardi di dollari nel 2015. Ma a quanto pare il nuovo giocattolo si è rotto. Dei circa mille P2P sbocciati in Cina 58 sono falliti nell’ultimo trimestre del 2013. E gli esperti del settore credono che il 90 per cento delle agenzie online farà la stessa fine. La moria del «peer-to-peer» è cominciata proprio con la crisi di liquidità nel grande sistema bancario cinese.
Il P2P con il suo microcredito è una goccia nel mare del debito cinese. Ma nel mare sembra prepararsi una tempesta. Anche perché la Cina non era abituata storicamente all’economia del debito. Pechino l’ha abbracciata con la crisi finanziaria globale del 2008, per mantenere il ritmo di crescita nonostante la frenata del resto del mondo, il suo grande mercato. Il sistema bancario ha finanziato con estrema generosità progetti per infrastrutture pubbliche, piani edilizi e industrie.
Da allora il debito complessivo (Stato, imprese e famiglie) è stato appesantito di un 70 per cento almeno, arrivando al 200 per cento del Prodotto interno lordo. Il governo è consapevole del pericolo, promette di intervenire; ma l’economia cinese ormai è cambiata dopo aver assaggiato la droga dell’indebitamento facile.
E non sono solo le grandi industrie che continuano a sfornare acciaio e cemento nonostante un evidente eccesso di produzione, o i palazzinari che costruiscono grattacieli e shopping mall destinati a restare vuoti ad essersi assuefatti a ricevere un credito insostenibile. Anche le famiglie, tradizionalmente risparmiatrici, hanno cambiato abitudini.
Delle tre categorie del debito — Stato, imprese e famiglie — l’ultima è valutata in duemilacinquecento miliardi di dollari. È ancora solo un terzo circa del Pil della Cina, metà dell’indebitamento pubblico e un quarto di quello delle imprese. Ma se si guarda alla progressione del debito delle famiglie ci si deve preoccupare. In cinque anni è triplicato. Nel 2008 il nucleo familiare medio in Cina doveva il 30% del suo reddito disponibile, mentre nel 2011 era già arrivato al 50%. Certo, i livelli occidentali, dove si supera il 100%, sembrano ancora lontani, ma i cinesi hanno dimostrato di saper correre nel campo dell’economia, sia nel bene sia nel male.
Sono i giovani tra i 30 e i 35 anni, che hanno fatto irruzione in una classe media di oltre 500 milioni di anime, il gruppo più a rischio di «default». Mentre i loro genitori erano nati risparmiatori, loro spendono. Anzitutto per avere una casa: questa classe media emergente vive nelle grandi città dove gli appartamenti continuano a salire di prezzo (tra il 113 e il 250% in dieci anni) e in città non ci si sposa se non si ha una casa. Nove cinesi su dieci sono proprietari dei loro alloggi, ma i mutui mangiano i redditi. La legge vuole che almeno il 30% della somma per l’acquisto sia pagata in contanti e se non si hanno ci si rivolge al prestito «peer-to-peer» che può praticare tassi fino al 15%. Ma poi ci sono le spese variabili di una classe media che vuole correre. Per riconvertire l’economia cinese troppo dipendente dalle esportazioni il governo del presidente Xi Jinping vuole spingere i consumi interni. I giovani in carriera non si fanno pregare: ecco perché la Cina è la nuova frontiera dei marchi automobilistici, del lusso, dell’abbigliamento, dei tour operator. È la globalizzazione. Anche dell’indebitamento.

@guidosant