Egle Santolini, La Stampa 12/1/2014, 12 gennaio 2014
HO 104 ANNI E ADESSO MI VOGLIO DIVERTIRE
Devi sforzarti di dimenticare che ad aprile compirà 104 anni, e insomma smettere di considerarlo come un venerabile Yoda sceso dalla Trieste di Svevo e di Saba a impartire lezioni di estetica e di storia dell’arte. Macché: a Gillo Dorfles piace vivere nel presente «e possibilmente nel futuro», se gli chiedi ricordi e aneddoti si spazientisce, ed è a tutti gli effetti un pittore giovane, pieno di vitalità e di emozioni, come testimonia la quarantina di opere che vanno in mostra da martedì alla Fondazione Marconi di Milano.
Certi rosa e azzurri freschi e ottimisti, certi personaggi beffardi, perfino certi titoli malandrini: professore, chi sarebbe mai questo Gran cornuto del 2004, acrilico su tela? «Non si lasci influenzare, quelle sono soltanto frasi segnaletiche per distinguere un quadro dall’altro, le decido all’ultimo quando si tratta di allestire. Nessuna pretesa metaforica o filosofica. Qui c’è solo il piacere di abbandonarsi alle forme e ai colori, e anche al gusto del gioco. Ma a una cosa tenevo in modo particolare, metterci anche un’opera di una certa evidenza». Ed è poi Contorsione, la colonna di vetroresina alta 192 centimetri, tutta un lilla vibrante e un arancio pastoso e un verde luminoso, che fino a pochi giorni fa teneva qui, nel salotto della casa studio dietro corso Buenos Aires, tra i Fontana e i Melotti, gli Scialoja e i Capogrossi, i Fioroni e gli Accardi. Spiega: «È l’ingrandimento di una piccola scultura di ceramica che ho fatto realizzare in laboratorio, stava qui accanto al pianoforte». Già, perché oltre a dipingere, a scrivere poesie e a essere quel formidabile critico d’arte che ha innervato il Novecento italiano, Dorfles, en passant laureato in neuropsichiatria, si mette pure alla tastiera «tutti i giorni, per le mie improvvisazioni. Non a decifrare la musica degli altri: sarebbe troppo faticoso. Quello lo facevo da giovane. Adesso suono soltanto ciò che mi aggrada».
È la libertà del gentiluomo centenario (portamento fiero, profilo importante, gran bella giacca a quadri nei toni del nocciola, la cravatta sotto il morbido pullover) che, finalmente, può concedersi soltanto al divertimento. «Nella pittura è la stessa cosa, i colori forti mi sono piaciuti fin da bambino, ci sono anche nei quadri dipinti nel periodo del Mac (Movimento Arte Concreta, ndr). Ma questi pezzi mi sembrano migliori, perché forse la tecnica si è affinata». Quanto ci si applica? «In maniera disordinatissima, secondo la mia indole. Càpita che lavori come un matto per quindici giorni e che poi molli tutto per un paio d’anni. Soprattutto combatto qualsiasi pedanteria, mi sforzo di essere antiprofessionale visto che quella, all’inizio, era la mia professione». Un bel contrappunto, tutta questa leggerezza, a un periodo storico particolarmente oscuro e depresso. «Ma l’arte dovrebbe appunto farci evadere dagli incubi, e se è vero che per qualcuno è stata soprattutto dolore io l’ho sempre considerata un’occasione di estrema piacevolezza. Del resto, negli ultimi cinquant’anni, non direi che manchi una voce gioiosa. Pensi all’Arte Povera, a quel suo dare dignità anche all’oggetto più elementare».
Nomi da incoronare, nel panorama di oggi, è impossibile scucirglieli, lo entusiasma il mondo ma «soprattutto, nell’arte, mi entusiasma quello che faccio io». Quanto agli altri aspetti della vita nazionale, «la politica mi ha sempre irritato, se non ossessionato ai tempi dei totalitarismi. S’immagini, adesso, quanto m’infastidisca». E il quoziente in crescita del cattivo gusto? Se l’aspettava, da teorico del Kitsch? «Non sono per niente d’accordo, anzi: direi che il gusto è nettamente migliorato. Pensi al modo di vestirsi: oggi, in tutte le classi sociali, vi si manifesta una cura molto maggiore. La moda è diventata un oggetto di interesse personale e anche il contadino tende a vestirsi come il borghese, tanto che spesso sono indistinguibili. Che si voglia o no, del Kitsch e dell’importanza del gusto c’è maggiore coscienza. Mi piacerebbe fosse anche un po’ merito mio e di autori come Clement Greenberg che hanno indagato sul tema».
Col caffè che arriva su un vassoio (e col latte, e la ciotola dei gianduiotti) Dorfles vira poi all’urbanistica e produce interessanti osservazioni: «Lo sa che il suo giornale si fabbrica nell’unica città d’Italia? Come Torino non c’è nulla. Firenze è un gran giardino, Roma una capitale ampollosa, Milano e le altre, borgate e nulla più. Ma Torino. Gli anni del Nizza Cavalleria li ricordo come un paradiso, stavo in via Lagrange, ero amico di Casorati e di Giacomino Debenedetti. E più tardi, quando cominciai a pubblicare i primi libri con l’Einaudi, frequentavo la casa editrice e andai spesso anche a Dogliani, dove purtroppo servivano un vino mediocre».
La libreria antiquaria di Saba della sua infanzia triestina e asburgica, quando si sconfinava e si diceva «andiamo in Italia», l’ha raccontata millanta volte: «Ma per me era un ambiente naturale, mi chiedono di Svevo e delle sorelle Veneziani che erano relazioni della mia cerchia familiare. Ho avuto la grandissima fortuna di poter conoscere persone meravigliose». E poi gli amici più cari della maturità: Ungaretti, Montale, Munari, Melotti, «Fontana che mi mise in contatto con lo straordinario ambiente artistico di Buenos Aires, quello della Nueva visión». No, non è facile prescindere dal passato del venerabile Yoda. E allora come si relaziona, professore, con le giovani generazioni? «Fino a che ho insegnato all’università è andata benissimo: anche perché a lezione, rispetto ai miei colleghi, di certo gli parlavo di argomenti più divertenti. Oggi non saprei formulare opinioni, purtroppo non ho più l’occasione di una frequentazione quotidiana». Le nuove tecnologie, in compenso, un filino lo inquietano. E alla fine dell’intervista, quando lo inquadro con l’iPad per una foto ricordo, sobbalza impercettibilmente: «Speriamo che non esploda», gli sfugge.