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 2014  gennaio 12 Domenica calendario

INTERVISTA A TIZIANA SEMBIANTI


Per visitare uno dei più bei musei d’Italia, bisogna inerpicarsi su per la strada che porta al Castel Beseno, il maggior complesso fortificato del Trentino, in territorio di Besenello, oltre Rovereto. Aggirato il maniero del XII secolo, si prosegue per una stradina che porta a una casa a strapiombo sul rio Cavallo. Trattandosi di un’abitazione privata, si può entrare solo su invito, e non è facile strapparne uno. Ho trovato appeso alle pareti, fra cucina, tinello e salotto, mezzo millennio di storia dell’arte, dal 1400 al 1900: La dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci, la Canestra di frutta di Caravaggio, la Zingarella di Boccaccio Boccaccino, il Paesaggio invernale con pattinatori e trappola per uccelli e l’Adorazione dei Magi nella neve di Pieter Bruegel il Vecchio, il Vaso di fiori su balaustra di marmo di Jan van Huysum, I giocatori di carte di Paul Cézanne, I papaveri di Claude Monet, la Natività di Georges de la Tour. E poi tre tele di Vincent Van Gogh e due di Paul Gauguin e altri dipinti dei tre fratelli Limbourg, di Hendrik Avercamp, di Odilon Redon e del Maestro delle mezze figure femminili, l’anonimo pittore fiammingo del XVI secolo. Tutti con le loro cornici originali. Per esempio il legno che circonda la Giuditta I di Gustav Klimt è sormontato dal fregio di rame sbalzato e dorato con l’iscrizione «Judith und Holofernes».
Ecco, ho usato l’aggettivo sbagliato, «originali». Perché nulla è autentico in questa pur originalissima pinacoteca privata, ma tutto sembra più vero del vero, a cominciare dalle due opere di Jan Vermeer, il seicentesco pittore olandese che sta andando per la maggiore in questo periodo, la Veduta di Delft e l’onnipresente Ragazza con l’orecchino di perla. Fedeltà ai colori, minuziosità nell’esecuzione, effetto finale sbalorditivo. Per non effettuare un viaggio a vuoto, ho sottoposto preventivamente le opere, sia pure in fotografia, al giudizio di Marco Goldin, il signor Grandi Mostre che dall’8 febbraio porterà a Bologna, a Palazzo Fava, la vera Ragazza col turbante di Vermeer. «Merce di sicuro all’altezza», è stato il verdetto.
«Grazie», arrossisce Tiziana Sembianti, la timidissima autrice delle 24 mirabolanti copie. Il marito Claudio Iungg, che più di trent’anni orsono aveva coniato la dizione «falsi d’autore» per Daniele Dondè, noto specialista cremonese del ramo, adesso ne ha inventata una più poetica per la consorte: «Sono capolavori allo specchio». In effetti nello studio dove queste creazioni vengono alla luce vi è, accanto al cavalletto, una specchiera ottagonale, «che però», spiega la moglie, «serve solo per “allargare” la stanza, per darmi un senso di maggiore libertà».
In questo periodo la signora Sembianti, nomen omen, è alle prese con le sembianze dell’Annunciata di Antonello da Messina. L’ha iniziata due mesi fa. La notte scorsa s’è alzata alle 2.30 («soffro d’insonnia»), ha continuato a dipingere fino alle 5.30, poi ha dormito tre ore. Alle 15 ha ripreso («ma ero agitata perché sapevo che doveva arrivare lei per l’intervista»). Quando non giungono intrusi a sconvolgere il suo eremitaggio, continua fino a sera inoltrata: «Per fortuna cucina mio marito. Alle 20.30 o alle 21 mi chiama a cena. Fosse per me, non mangerei. Dimentico che esiste il tempo».
Ogni riproduzione le porta via dalle 600 alle 2.000 ore, «per i fiori di van Huysum, terribili, anche di più», cioè anni di lavoro, tenuto conto che in alcuni periodi deve accudire la madre Maria, ultranovantenne. Ma di lavoro altamente selettivo, perché la virtuosa del pennello ha le sue radicate antipatie: «Non dipingerei mai un Picasso, essere odioso, spregevole, che ha sempre usato gli altri». Insomma, il plagiato deve piacerle innanzitutto sul piano umano. Non basta: nessun quadro può lasciare la sua villetta. «Non espongo e non vendo».
Tiziana Sembianti è nata nel 1948 a Rovereto. Fin da bambina ha sofferto di un mal di testa invalidante che la costrinse a interrompere gli studi tre mesi prima dell’esame di maturità al liceo classico: «Ho vomitato tutti i giorni per quasi 50 anni». Solo nel 1996 si scoprì la causa della malattia che il padre Gianni, medico, morto novantenne nel 2012, non era riuscito a diagnosticarle: «A bloccarmi la digestione, e quindi a procurarmi le atroci emicranie, era l’Helicobacter pylori, il batterio che si annida nello stomaco. Ma ormai non si poteva più debellare. Ora riesco a tenerlo sotto controllo con i moderni farmaci». Figura centrale, Gianni Sembianti, pioniere italiano dell’agopuntura e dell’auricoloterapia, nella formazione della figlia. «A 6 anni mi faceva ascoltare Brahms, Chopin, Liszt e mi offriva una chiave interpretativa della loro musica. Metteva il disco della Danza macabra di Saint-Saëns: “Lo senti? È lo scheletrino che rincorre gli altri scheletri”. Soltanto da grande ho capito che dava corpo alle sue fantasie. E poi dipingeva, dipingeva tantissimo. Ritratti, soprattutto».
Ha preso da lui.
«Non mi ha mai lasciato dipingere. Mi sono avvicinata alla pittura da sola, negli anni Ottanta. Mio padre mi voleva un bene dell’anima, ma non ha certo accresciuto il mio livello di autostima».
Alla fine si sarà complimentato.
«Nemmeno. Non mi ha mai detto: “Sei più brava di me”. Mi ha semplicemente chiesto: “Ma come hai fatto?”».
Se non vende i quadri, di che campa?
«Le condizioni di salute mi hanno impedito di lavorare. Ho avuto la fortuna di sposare il figlio di Renato Iungg, funzionario della Banca d’Italia, tra i fondatori del coro della Sat. Mio marito ha diretto varie Aziende di promozione turistica. Quando stavano per affidargli l’Apt del Trentino, ha preferito smettere e s’è messo a girare il mondo. Ha visitato 75 Paesi. Nel Burkina Faso s’è preso la malaria, quella cattiva, la terzana maligna che uccise Fausto Coppi. È vivo per miracolo».
Lei non lo seguiva?
«No. M’è bastato il lungo soggiorno fra Iran, Irak, Siria e Giordania cui mio padre mi costrinse quand’ero adolescente. Da allora, preferisco casa mia».
Le sue copie rispettano le misure delle opere originali?
«Tutte, tranne la Canestra del Caravaggio e i due Gauguin. Sono state le prime che ho dipinto e allora davo retta, per paura, a chi mi diceva che era proibito dalla legge tenere le misure uguali. Ma se uso tele e tavole di oggi, dove mai potrebbe essere l’inganno? E comunque sotto la cornice ci sono sempre 1-2 centimetri in più di pittura».
Sono diversi anche i colori.
«Logico. Oli puri superiori di Maimeri, 80-90 euro a tubetto. Del resto, siccome adopero spesso le dita, non mi va di avvelenarmi. Con il bianco di piombo e il blu di Prussia molti artisti morivano».
E poi è difficile che qualcuno possa spacciare la sua Dama con l’ermellino per quella di Leonardo da Vinci.
«Nell’arte si vede di tutto, se è per quello. Mi hanno proposto di copiare un quadro dell’Ottocento che era entrato in un asse ereditario. Mi sono rifiutata».
Perché ha scelto proprio queste tele?
«Mi emozionano. Volevo capire in che modo sono state create. Lei guarda due dipinti: uno è un capolavoro, l’altro è solo un bel quadro. Perché? Prenda Pierre-Auguste Renoir. Ha dipinto cose meravigliose e cose oscene. Le bagnanti sono orrende. Invece il Bal au Moulin de la Galette è sublime, e così pure La colazione dei canottieri. Nell’Annunciazione di Leonardo il braccio della Madonna appoggiato al leggio è disarticolato, non avrebbe mai potuto essere così in natura. Vada a vederlo agli Uffizi: troppo lungo. È proprio sbagliato, si nota subito. Eppure l’insieme profuma di paradiso».
Come mai dal Giappone agli Stati Uniti, e fra meno di un mese anche in Italia, la gente fa la coda per vedere la Ragazza con l’orecchino di perla?
«Vanno a timbrare il cartellino. Vogliono poter dire: “Io ci sono stato”. Sono suggestionati dal libro e dal film, uno più brutto dell’altro. Ma non riescono a vederla. Quella è una bellezza che richiede tempo, per essere capita».
Che cosa vuol copiare in futuro?
«La Gioconda. Mi serviranno tre anni».
C’è un capolavoro che sa in partenza di non riuscire a imitare?
«La Gioconda. Ho visto l’unica copia ufficiale, al Prado di Madrid. Neanche da mettere a confronto. Nessuno è capace di riprodurla. L’ho studiata a lungo, conosco tutte le difficoltà tecniche: sono enormi. Monna Lisa è la sfida assoluta. È fatta solo di velature. Quali furono messe prima e quali dopo, sino a ottenere il colore finale? È fatta di trasparenze, è fatta di aria, è fatta di niente. È talmente inconsistente, immateriale, da lasciar intravedere il legno di pioppo della tavola».
Pioppo, è sicura?
«Certo, come l’Annunciata di Antonello da Messina. Veniva scelto perché è un legno che non si deforma e non si spacca in due. Però ha un difetto: è attaccabile da tarli, muffa, umidità. Il guaio di questi capolavori è che non ce li potremo godere per molto. Nel 2014 la Gioconda fa 500 anni tondi. Per questo è importante salvare almeno qualche copia di valore».
Non è presa dal panico quando si trova davanti alla tela bianca?
«Il panico mi prende dopo aver iniziato».
Di che cosa ha bisogno per copiare?
«Di vedere. Ho fatto violenza a me stessa, viaggiando in tutto il mondo per visitare i musei dove sono custodite le opere che ho riprodotto, da Washington ad Amsterdam, da Vienna a Rennes. Tranne che per una di Bruegel il Vecchio, che appartiene a un collezionista privato di Winterthur, ho passato intere giornate davanti a singoli quadri. Al Musée d’Orsay di Parigi ho litigato con un sorvegliante insospettito perché sostavo per ore davanti ai Papaveri di Monet. Ricordo ancora il gelido inverno polacco, al Czartoryski muzeum di Cracovia: due giorni accanto alla Dama con l’ermellino, senza riscaldamento, senza un cane di visitatore. La custode, un armadio di donna, non mi perdeva d’occhio neppure per un attimo. Alla fine ci siamo abbracciate. Eravamo diventate amiche».
Ha mai avuto la sensazione in qualche museo di trovarsi davanti a una copia anziché all’originale?
«Eccome. Copie brutte, per di più. Ne sono certa. L’inglese Erick Hebborn aveva minacciato di rivelare in un libro i nomi di tutti i collezionisti in possesso di sue opere attribuite a celeberrimi pittori del passato. Ma non fece in tempo a scriverlo: nel 1996 fu ritrovato in una piazza di Trastevere con il cranio fracassato».
Perché non organizza una mostra?
«L’ho fatto solo una volta nel 2000 a Madonna di Campiglio, per far contento mio marito che lavorava lì. In altre due occasioni ho prestato la Giuditta I di Klimt a Bolzano e cinque opere a un centro d’arte di Caldonazzo, per amicizia. In quattro giorni ho perso quattro chili. Troppo ansiosa. Mi sono giunte richieste da Shanghai e da Canton. Ma non posso separarmi dai miei quadri».
Non ho ancora ben capito quale sia il merito di un copista.
«Nell’originale il pittore fa ciò che vuole: corregge, aggira l’ostacolo. Nella copia ti è concesso solo di sbagliare».
Per quale motivo entrando in una cattedrale romanica o gotica ci pare tutto magnificente, mentre visitando una chiesa costruita nell’ultimo secolo viene voglia di fuggire?
«È morto l’assoluto. Le cattedrali di ieri erano erette da gente che ci credeva. Le chiese di oggi sono figlie del relativismo: trattatelli di filosofia che celebrano la grandezza del nulla. Non inducono a pregare, entrandoci. Né a inginocchiarsi».
Chi o che cosa ha pervertito il senso estetico dell’umanità?
«Il denaro. Oggi prevale l’interesse economico. L’opera non si affida al più capace, bensì all’amico. Sono brutti anche palazzi, uffici, scuole. Federico Zeri diceva: “Meno male che Napoleone s’è portato via un bel po’ di opere d’arte, altrimenti in Italia distruggevano pure quelle che stanno al Louvre”».
Va a visitare il Mart di Rovereto, ogni tanto? Ce l’ha qui sotto casa.
«Sono stata al Mart e anche al Moma di New York. Non mi faccia dire altro. Hanno portato mia nipote Barbara, 15 anni, a vedere i “tagli” di Lucio Fontana a Torino. Al ritorno, le ho chiesto: che cos’hai visto? “Tele con uno sbrego”, mi ha risposto. Allora le ho detto: ricorda che se l’arte ha bisogno di essere spiegata, significa che l’artista ha fallito».
Che altro ha visto di molto brutto in giro per il mondo?
«Un pene alto 2 metri che andava su e giù, azionato da un motore, al Beaubourg di Parigi. Tutt’intorno, 3 metri cubi di rifiuti. Immondizia vera, imballata in una rete. Per fortuna non umida».
Lei avrebbe voluto nascere nel Rinascimento, confessi.
«No, nel 2400. Per vedere come andrà a finire».
Stefano Lorenzetto


LORENZETTO Stefano. 57 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: Hic sunt leones (Marsilio).


LORENZETTO Stefano. 57 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Tredici libri: La versione di Tosi e Hic sunt leones i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.