Marco Cobianchi, ItaliaOggi 11/1/2014, 11 gennaio 2014
LE COSE CHE DOVREBBERO ESSERE FATTE PER RILANCIARE SUL SERIO L’OCCUPAZIONE (LE ELENCO) PURTROPPO NON SI TROVANO NEL JOB ACT
Ho voluto aspettare di compulsare diligentemente il Job Act di Matteo Renzi (tempi impiegato: 15 minuti) e soppesare i profondi commenti di economisti, sociologi, politici ed esperti vari. Ho voluto attendere che la Camusso chiedesse la solita patrimoniale «redistributiva» per aumentare i redditi e, quindi, la domanda e, quindi, il lavoro; che Bonanni dicesse che, comunque, lui è d’accordo e che la Fornero dicesse che il Job Act lo avrebbe voluto scrivere lei. Ho voluto aspettare che tutto questo accadesse per poter dire che all’Italia non serve alcun Job Act. E che certamente non le serve il Job Act di Renzi che non ha scritto un libro delle buone intenzioni, ma un manifesto politico-elettorale utile al candidato premier, ora incidentalmente segretario del Pd, per attribuirsi un profilo riformista ma liberale, di sinistra ma liberista, sul quale costruire la sua immagine di leader pronto a scalare Palazzo Chigi alla testa di un corteo dei liberisti di sinistra che, non esistendo, saranno soprattutto di destra.
Ovviamente i primi a cascarci sono stati quelli per i quali «Il liberismo è di sinistra» e che non vedevano l’ora che qualcuno desse loro ragione, cioè il tandem Alesina-Giavazzi che, prima della crisi, si sono distinti nel sostenere che della crisi era perfino pericoloso parlare, non perché non ci fosse, ma perché, a forza di temere che ci sarebbe stata, essa ci sarebbe stata davvero. Contenti, hanno, anche loro, dato credito ad un Job Act che è un programma politico utile solo a far tremare un governo già in bilico e mantenere impantanato il parlamento, i partiti, i sindacati e l’opinione pubblica in una discussione che non aumenterà il numero degli occupati. E se qualcuno pensa il contrario o è un illuso, o è in malafede o è un renziano.
Il vero Job Act di cui ha bisogno l’Italia è il taglio del costo dell’energia, che in Italia è superiore del 30% rispetto ai concorrenti europei; un taglio deciso del cuneo fiscale (e non per quel brodino di 14 euro di Letta) anche sforando, temporaneamente, i parametri europei; e la privatizzazione dei servizi pubblici locali gestiti da Comuni che non riescono a chiudere i bilanci senza aumenti delle tasse ma vogliono lo stesso continuare a gestire servizi che non sono capaci di rendere produttivi e, quindi, impossibilitati ad assumere, senza gravare sulle spalle degli utenti-contribuenti.
Serve il taglio dei costi burocratici, la certezza del diritto commerciale, la velocizzazione delle procedure giudiziarie. Serve la meritocrazia, l’abolizione del Titolo V della Costituzione e la trasparenza degli appalti. Serve la lotta alla criminalità e all’illegalità nel campo dell’offerta di lavoro (vedi Prato). Serve l’abolizione degli inutili e costosi centri per l’impiego pubblici, dove le offerte di impiego vengo affisse con le puntine da disegno nella bacheca in corridoio. E serve soprattutto che i fondi europei non vengano più dati in gestione alle automonie locali così da evitare che vengano spesi per coltivare clientele, ovvero, per aumentare l’inefficienza e l’inefficacia dell’intervento pubblico in economia, ma occorre che vengano gestiti da una autorità centrale sottoposta al controllo della Corte dei Conti da manager che vengono valutati con il metodo dei risultati ottenuti e non di quelli preventivati (come si fa ora).
Questo è il vero Job Act. Il quale certamente va accompagnato (non preceduto né seguito) da un aumento dei diritti delle persone che ora non ne hanno alcuno a partire da quello delle donne precarie di avere un figlio senza il terrore di essere licenziate. Ma per attribuire loro questa tutela non serve un immaginifico Job Act, basta una legge (il ministero del Lavoro serve per questo). Capisco che una semplice, banale, normale legge dello Stato non eccita l’immaginazione dei futuri elettori del Pd renziano, che, dopo anni di grigiore, hanno bisogno di vedere i fuochi d’artificio sospirando «ah, se Renzi fosse arrivato prima», ma sarebbe più semplice e veloce. Spiace per loro dire che non serve a nulla ridurre le tipologie di contratti di lavoro per aumentare i posti di lavoro, prima di tutto perché i tipi di contratto non sono 40 ma 15 e, in secondo luogo, perché 15 è un numero adeguato alla eterogeneità dei modelli d’impresa che concorrono a formare il Pil del Paese il quale è costituito, per il 92%, dal lavoro di piccole e medie imprese che non possono essere certamente costrette ad applicare l’identico tipo contratto che applica la Fiat.
Serve smetterla con i sussidi alle imprese decotte, compresi quelli erogati perché si assumano persone delle quali non hanno bisogno ma che sono utili per sostituire dipendenti più anziani la cui unica colpa è quella di avere un’età che non gli consente di essere sussidiati dallo Stato. Serve l’abolizione delle province, la licenziabilità dei dipendenti pubblici e la meritocrazia all’università. Servono molte cose. Tutte quelle che non sono nel Job Act di Renzi.