Guido Salerno Aletta, MilanoFinanza 11/1/2014, 11 gennaio 2014
L’AUTOGOL DELLA MERKEL
Mentre sul versante Pacifico gli equilibri si vanno ricostituendo, le distanze sull’Atlantico stanno crescendo. L’economia americana sembra ormai avviata a una ripresa consistente, e i tassi di interesse sul dollaro lo dimostrano: dal gennaio 2013, quando il tasso del T-bond a 10 anni segnava l’1,98%, siamo passati al 2,98% di fine d’anno, esattamente un punto in più. A causa non della crescita dell’inflazione americana, bensì della ripresa dell’economia reale. L’America e la Cina hanno ridotto il loro sbilancio con l’estero, visto che sia il passivo statunitense sia l’attivo cinese si sono ridotti rispetto agli andamenti pre-crisi, pur in un contesto di crescita sostenuta. L’attivo della bilancia dei pagamenti correnti della Cina è passato dal 10,1% del pil nel 2007 al 2,5% del 2013, mentre il passivo statunitense è passato dal -4,9 al -2,7% del pil. Nel frattempo, il trend di crescita di Cina e Usa è rimasto elevato, anche se è evidente la correlazione tra la riduzione della dinamica del pil cinese e la contrazione del saldo estero. La Cina è passata da una crescita del pil reale che era del 14% nel 2007 al 7,6% nel 2013: i 6,4 punti in meno di crescita si appaiano alla riduzione del saldo estero che è stata di -7,6 punti. La riconversione produttiva verso la domanda interna è faticosa. L’economia reale degli Usa è ritornata a crescere già nel 2010, nel 2013 dovrebbe aver segnato un +2,7% e per quest’anno è previsto un +2,8%.
Il decoupling dell’economia europea è vistoso, considerando i bassi tassi di crescita, mentre il riequilibrio delle bilance dei pagamenti ha riguardato prevalentemente quelle in passivo. Nel 2013, la Francia è cresciuta dello 0,2% mentre la Germania non dovrebbe essere andata oltre il +0,5%: un tracollo rispetto al 2010, quando la Francia aveva registrato un +1,7% e la Germania un +3,9%. Ancora nel 2013, la Grecia dovrebbe aver perso un altro 4,2% del pil, mentre la Spagna sarebbe appaiata all’Italia, con un -1,7%. L’aumento di 100 punti base dei tassi di interesse sui titoli del Tesoro americano ha fatto da traino a quelli tedeschi, che sono passati dall’1,67% del 1° gennaio 2013 all’1,89% di fine d’anno. L’aumento dei tassi in Germania è stato più contenuto rispetto a quello americano per tre motivi: la minore crescita economica prospettica della Germania rispetto a quella statunitense, e l’enorme liquidità che giace inoperosa nel sistema bancario tedesco. Considerando poi che l’inflazione americana nel 2013 è stata dell’1,4%, mentre quella tedesca è arrivata all’1,6%, risulta che il tasso reale di interesse a fine d’anno negli Usa è stato pari all’1,58%, mentre in Germania è stato inferiore a 20 punti base. Per quanto riguarda l’Italia, l’andamento dei tassi sul mercato secondario dei titoli di Stato a 10 anni è stato molto frastagliato, se si considera il rialzo di febbraio scorso, la caduta ad aprile, il nuovo picco a settembre e poi la continua discesa fino a dicembre, quando è arrivato al 3,9%. Il nervosismo va correlato prima alle vicende elettorali dell’inverno e poi alle fibrillazioni estive della maggioranza. Lo spread fra i titoli italiani e i Bund si è contratto, portandosi intorno ai 200 punti, ma in termini reali i titoli italiani nel corso dell’anno hanno pagato di più: infatti, mentre a gennaio 2013 l’inflazione era del 2,3% e i tassi al 4,3%, a fine d’anno l’inflazione è scesa allo 0,7% (dato di novembre) mentre i tassi sono arrivati al 3,9%. L’inflazione è calata di 1,6 punti percentuali, mentre i tassi di appena 0,4 punti. Tenendo conto del fatto che un po’ meno del 70% dei titoli italiani è sottoscritta da residenti e che il pil dovrebbe essere diminuito in termini reali dell’1,8%, il rendimento è stato sicuramente soddisfacente. In ogni caso, fino a settembre, l’esborso per interessi sul debito delle Pubbliche amministrazioni è stato inferiore rispetto a quello dei nove mesi del 2012, con un risparmio di 3 miliardi.
Le prospettive per il 2014 sono quindi molto differenziate. Negli Usa, anche per via della decisione già assunta dalla Fed il mese scorso di iniziare il tapering, l’uscita morbida dal programma di allentamento monetario che verosimilmente proseguirà a ritmi anche più sostenuti a mano a mano che la ripresa economica si consolida, i tassi di interesse dovrebbero crescere. In Europa, come è stato ribadito dal Governatore Mario Draghi nella conferenza stampa al termine dell’ultima riunione del Comitato direttivo della Bce del 9 scorso, la prospettiva è quella di una inflazione bassa per ancora lungo tempo, segno evidente di una domanda interna continuare ridotta. Non c’è altro da fare, quindi, che aspettare gli eventi: si agirà, per contrastare possibili emergenze negative. La Bce sembra essere una sorta di pompiere: può solo spegnere il fuoco, quando dovesse divampare un incendio, utilizzando ogni mezzo possibile, ma non può immettere ordinatamente liquidità nell’economia affinché si riprenda: la Germania ne ha fin troppa, e la sua inflazione è già più alta di quella americana e di qualche centesimo superiore anche a quella dell’Italia. Non è un paradosso, ma solo il frutto delle politiche deflazionistiche condotte finora. Gli Usa vogliono chiudere a tutti i costi il gap residuo della bilancia commerciale, e stanno aumentando i risultati dell’export. Ma se l’Europa non compra, è costretta a svalutare: sarebbe uno shock asimmetrico che danneggerebbe pressoché tutti i Paesi, ad eccezione di Olanda e Germania.
Anche la Cina ha fatto giganteschi passi in avanti per riequilibrare la sua bilancia dei pagamenti, a costo di dimezzare il ritmo di crescita. L’Europa, invece è squilibrata nei confronti del resto del mondo: il pareggio complessivo dei rapporti dell’Eurozona nei confronti dei Paesi extra Ue è il frutto della compensazione contabile tra l’avanzo commerciale di Germania e Olanda ed il saldo negativo di tutti gli altri. La riduzione degli squilibri infracomunitari ha lasciato pressoché inalterati quelli verso il resto del mondo, con una correzione delle importazioni che danneggia la dinamica dell’intero commercio mondiale. Né gli Usa né la Cina possono contare sulla crescita della domanda dell’Europa. La posizione degli Usa è chiara: la Germania non può continuare ad avere, unica al mondo, un attivo commerciale di oltre il 6% del pil. Oltre che vendere, deve pure comprare. Il recente viaggio del segretario di Stato al Tesoro in Germania, in visita al ministro Schaeuble, non avrebbe aggiunto nulla di nuovo a quanto già noto, né è emersa ufficialmente alcuna modifica delle posizioni tedesche: «Ci incontriamo per conoscerci meglio», avrebbe affermato il ministro tedesco. Forse, visto che le telefonate tra il presidente Obama e la cancelliera Merkel non sono bastate, qualche messaggio in più potrebbe essere stato recapitato di persona. A quattr’occhi, magari, ci si intende meglio.