Livia Grossi, Corriere della Sera 11/1/2014, 11 gennaio 2014
ANIELLO ARENA, L’ERGASTOLANO CHE TRASFORMÒ L’INFERNO IN PALCOSCENICO
«Se la mia storia può essere utile a qualcuno, facciamolo ‘sto libro!». L’ergastolano Aniello Arena, protagonista di Reality, il film di Matteo Garrone (Gran premio della giuria al Festival di Cannes 2012), dopo essersi aggiudicato il Nastro d’argento come miglior attore dell’anno 2013 racconta la sua vita in L’aria è ottima (quando riesce a passare) , la testimonianza di uno scugnizzo con il fuoco nelle vene che dopo aver girato le carceri di mezza Italia, esce dall’inferno e rinasce con il teatro e il cinema; un’avventura umana dalla verità cruda e bruciante, raccolta da Maria Cristina Olati (Rizzoli, pp. 222,e 16).
«Prima di incontrare Armando Punzo e la sua compagnia al carcere della Fortezza (novembre 1999) ero ancora un pezzo di carne che camminava, non conoscevo i verbi né l’italiano e molte altre cose» afferma il detenuto fine-pena-mai. «In quell’ex cella di tre metri per nove, il teatro più piccolo del mondo, Armando ci leggeva brani di autori mai sentiti, da Pasolini a Nijinsky, ci parlava del suo passato e nei suoi occhi non c’era mai giudizio per le nostre vite. Il suo teatro aveva l’odore della libertà. La prima cosa che ho pensato è stato: dove ho vissuto finora?».
Nella prima parte del libro c’è la risposta, la sua personale battaglia contro il mondo, una storia lucida e cruda che inizia a Barra, il periferico quartiere di Napoli dove è nato, un posto dove è difficile costruirsi una vita regolare: «Non è vero che siamo tutti uguali e a tutti vengono date uguali possibilità — dichiara Aniello Arena — ci sono luoghi in cui il sole non batte e tu ci impieghi una vita di sbagli a trovarlo: io ho iniziato con gli scippi a sette anni e ho finito con le rapine». Il racconto del suo passato, e presente, dietro le sbarre, da Poggioreale («Il classico rimedio peggiore del male che dovrebbe curare»), a Rebibbia fino alla Fortezza di Volterra, l’inizio del suo riscatto.
Tutto è nato da un sogno, quello di Armando Punzo: «Le persone si possono trasformare, se anche le istituzioni si trasformano», una scommessa che il regista porta avanti da 25 anni con il suo lavoro in quel castello mediceo, cuore di un’esperienza davvero straordinaria. Qui sono nati i suoi spettacoli pluripremiati, dal Marat-Sade di Peter Weiss, a I negri di Jean Genet e I pescecani ovvero quello che resta di Bertolt Brecht , titoli contesi dai più importanti teatri e festival internazionali, opere visionarie, vitali, che raccontano un teatro fatto di carne e verità; produzioni nate in un’ex cella, un rettangolo stretto capace di scardinare le sbarre, un luogo dove ogni giorno Punzo e i suoi attori si danno appuntamento per rileggere la vita, senza puntare il dito su nessuno. «Armando ha fatto di quella cella la sua seconda casa — racconta Arena —. L’ho visto stare in carcere sette giorni su sette, compresa la domenica, come uno di noi».
Nel prezioso libro realizzato quest’anno dal regista per i venticinque anni della sua compagnia, (È ai vinti che va il suo amore , Edizioni Clichy, pp. 334, e 25), tra parole e sorprendenti immagini, Punzo parla della sua scelta: «Il mio obiettivo tra queste mura è uno solo, costruire un teatro stabile, il palcoscenico di un mondo imprigionato che ci racconta le contraddizioni della nostra realtà. Trasformare il carcere da luogo fatto da delinquenti da nascondere, a luogo da scoprire e persino insegnare qualcosa», niente a che vedere dunque, con l’arteterapia. «Non sono la Croce Rossa né un assistente sociale né tanto meno uno psicologo, afferma il regista.
Aniello Arena e gli altri lo sanno da sempre, «Armando cerca un’umanità nuova da dare al suo teatro e a chi come noi, l’aveva persa».