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 2014  gennaio 11 Sabato calendario

LA DONNA CHE MI FECE DIVENTARE UNO SCRITTORE



SAI che tuo padre ha un’amante a Londra?!» disse Eva Garcia, con il suo pesante accento del Galles e la sua altrettanto pesante schadenfreude, sempre del Galles (quel sottile piacere che si prova a riferire le brutte notizie). Eva era stata la nostra bambinaia-governante tutto il tempo che la famiglia aveva trascorso a Swansea ed era stata chiamata a Cambridge per contribuire ad alleviare una crisi domestica poco chiara. Mio padre Kingsley era altrove, e nessuno mi aveva detto perché. Avevo 13 anni. Trovai del tutto impenetrabili le parole di Eva e le cancellai dalla mia mente. Una settimana dopo, quando mia madre Hillary mi accompagnò a scuola, mi disse che lei e mio padre stavano per sperimentare una «separazione di prova». Tutto ciò che ricordo di aver provato in quel momento fu stordimento. Allora, naturalmente, non sapevo che le separazioni di prova quasi sempre vanno a buon fine. Quando iniziarono le vacanze estive, Hillary portò i suoi tre figli (Philip, Martin, Sally, di quindici, quattordici e dieci anni) a Soller, Maiorca, a tempo indefinito.

Mio fratello e io fummo iscritti all’International School di Palma, Sally frequentò le scuole spagnole locali. A novembre avevamo a tal punto nostalgia di nostro padre che tutte le mattine per circa un’ora aspettavamo che il postino si fermasse da noi con il suo motorino. E ogni tanto ci consegnava una lettera, breve e in genere priva di informazioni. Quando arrivarono le vacanze di metà anno, Hillary mise Philip e me su un aereo per Heathrow. Tutto quello che avevamo era l’indirizzo dell’appartamento “da scapolo” di Kingsley a Knightbridge.
Il volo fece ritardo ed era mezzanotte passata quando suonammo il campanello di Basil Mansions. Mio padre, col pigiama indosso, aprì la porta e fece un balzo all’indietro per lo sconcerto (il telegramma di Hilly non era arrivato). Le sue prime parole furono: «Non sono solo, lo sapete». Noi facemmo spallucce, indifferenti, ma in realtà eravamo tanto sconcertati quanto lui. In silenzio ci dirigemmo tutti e tre in cucina. E poi apparve Jane. Un giovane di oggi avrebbe pensato semplicemente «Wow!». Ma era il 1963 e pensai a lei più in termini di CASPITA, CHE DEA. Alta, tranquilla, di struttura sottile e con il portamento regale dell’indossatrice di moda che era stata in passato, in una vestaglia bianca immacolata e con quasi un metro di voluminosi capelli biondi che le arrivavano alla vita, Jane si presentò da sola, e ci preparò uova e bacon.
La nostra permanenza di cinque giorni fu un’orgia di piacere e bisbocce – il bar dei succhi di frutta di Harrod’s, i ristoranti, i negozi di dischi, il cinema nel West End (55 giorni a Pechino, con Kingsley che ogni volta che Ava Gardner compariva sullo schermo si sdraiava sul pavimento), intervallati da numerose chiacchierate laceranti e lacrimevoli con il cuore in mano tra padre e figli (durante una delle quali Philip – in modo davvero sconvolgente, secondo me – diede a Kingsley dello str...).
Ma le cose stavano così: lui aveva preso la sua decisione e non sarebbe tornato indietro. L’ultima sera, nel mezzo di una cena con alcuni ospiti, squillò il telefono e rispose mio padre. Ascoltò e poi gridò «No!». Riappese il ricevitore e pronunciò quattro parole. Jane pianse. Uno degli ospiti, il giornalista George Gale tutto sgomento andò a prendere il suo soprabito e si diresse a Fleet Street e al Daily Express. Era il 22 novembre. Kennedy era stato assassinato.
Nei tre o quattro anni successivi il nucleo famigliare – lassista, bohémien, caotico – a Fulham Road di mia madre, così sfortunata in amore, si disintegrò. E quando Philip e io andammo a vivere con Kingsley e Jane, io ero diventato un perdigiorno semianalfabeta, un fannullone il cui interesse principale consisteva nel bazzicare i luoghi dove si piazzavano scommesse (e dove la mia specialità era prevedere il piazzamento all’incontrario delle corse dei cani, il che la dice lunga). Fu Jane a prendere l’iniziativa. Lei era sempre stata sinceramente portata alla filantropia ed era fortemente attratta dai perdenti e dalle anatre zoppe. Da coloro, per dirla con le sue parole, che «conducevano vite spaventose». Le piacevano gli obiettivi, gli incarichi, i progetti. A differenza di entrambi i miei genitori lei era organizzata. Philip era di gran lunga più sfrontato e di gran lunga più ribelle di me. Non restò molto nella casa elegante e raffinata di Maida Vale. Ma io ero indeciso, mi sentivo confuso, e capitolai.
Quando Jane iniziò a occuparsi di me, avevo in media un O-level (livello ordinario) l’anno, e non leggevo altro che fumetti, più un po’ di Harold Robbins ogni tanto e i brani più lascivi de L’amante di Lady Chatterley. Da poco avevo sostenuto un A-level in inglese – unica materia nella quale davo segno di qualche vaga promessa – ma non ero passato. Dopo soltanto un anno di tutoraggio di Jane, mi ritrovai altre sei o sette O-level (compreso latino, imparato da zero), tre A, e una borsa di studio per Oxford di secondo livello. Niente di tutto ciò sarebbe accaduto senza l’energia e la determinazione di Jane. L’intero processo aveva offerto anche qualche momento di intimità. Un giorno, all’inizio, mi consegnò un elenco di libri da leggere: Austen, Dickens, Scott Fitzgerald, Waugh, Greene, Golding. Iniziai, diffidente, Orgoglio e pregiudizio. Dopo un’ora o poco più andai a bussare allo studio di Jane. «Sì?» disse, sporgendosi dalla scrivania. «Devo saperlo» dissi. «Elizabeth sposa il signor Darcy?». Lei esitò, mi guardò severamente. Mi aspettai che rispondesse: «Finisci il libro e lo scoprirai». E invece cedette. Non molto tempo dopo, concordammo che quello era il semplice segreto della forza narrativa di Austen e del desiderio abnorme e insopportabile di un lieto fine da parte del lettore: con la sua grande intelligenza e la sua arte Austen aveva creato eroi ed eroine totalmente fatti gli uni per le altre.
Almeno per i primi anni, Kingsley e Jane parevano fatti l’uno per l’altra. Il loro era un ménage insolito e insolitamente stimolante tra due scrittori impegnati con passione che erano anche appassionatamente innamorati. Il loro approccio alla scrittura quotidiana dava vita a un forte contrasto, tale da indurmi a speculare sulla differenza tra la fiction maschile e quella femminile. Kingsley era una macchina. A prescindere da come si sentiva (nei postumi di una sbronza, malato, bloccato, riottoso), dopo colazione si trascinava alla sua scrivania e lì restava finché non faceva sera e arrivava l’ora dei drink. Jane era molto più incostante. Passava da una stanza all’altra, si dedicava un po’ alla cucina o al giardinaggio, guardava fuori dalla finestra fumando una sigaretta con aria inquieta. Poi, all’improvviso, si dirigeva a tutta velocità nel suo studio e potevi sentire distintamente il febbrile ticchettio dei tasti della sua macchina da scrivere. Poco dopo, usciva tutta allegra, avendo scritto più lei in un’ora che mio padre in una giornata intera.
Parlando della poesia Lycidas di Milton, il grande critico Northrop Frye illustra la differenza tra sincerità reale e sincerità letteraria. Quando gli si riferisce la morte di un amico, il poeta scoppia in lacrime, ma non riesce a erompere in un canto. Con qualche cautela, io direi che nella fiction femminile c’è più canto – più sincerità reale e meno artificio consapevole delle tradizioni. Ciò si può affermare senza ombra di dubbio di Elizabeth Jane Howard. Era un’istintiva, con un occhio metaforico insolito e un orecchio fidato per una prosa veloce e ritmata. Una volta Kingsley “corresse” uno dei racconti di Jane, sistemandone la grammatica. Tutte le correzioni che egli apportò erano esatte dal punto di vista tecnico, ma tutte, dal mio punto di vista, divennero regressioni cospicue.
A quel punto, naturalmente, aleggiava già nell’aria una reciproca ostilità. Figlia di un prospero mercante di legname, Jane era stata allevata e istruita da una governante ed era cresciuta in una grande dimora piena di servitù. Figlio di un impiegato in una fabbrica di mostarda, Kingsley aveva invece ricevuto una borsa di studio Clapham ed era stato il primo Amis a frequentare l’università. (Fu anche un comunista con tanto di tessera di partito fino all’età ridicolmente avanzata di 35 anni.)
Questo divario di ceto sociale fu una componente della loro attrazione, per entrambi. Oltre che pathos, nella loro relazione ci fu anche bathos, una caduta di tono che alla fine si rivelò insormontabile. Kingsley in seguito avrebbe scritto che molti matrimoni seguono una sorta di iter tipico: la moglie considera il marito leggermente troppo maleducato e incivile, e il marito considera la moglie leggermente troppo sofisticata e spocchiosa. Fu come se Kingsley si fosse assunto il compito di dilatare quel divario.
In un buon matrimonio, i due titolari individuano le suscettibilità dell’altro molto presto e cercano di temperarle. Jane, e specialmente Kingsley, faceva il contrario. Quando lui divenne villano, lei non poté fare a meno di sembrare più spocchiosa. L’infezione proliferò, si estese, e si trasformò in una guerra fredda. Jane era una “fuggitrice” dichiarata, e nessuno si sorprese più di tanto quando nel 1980 piantò Kingsley. Mio fratello mi chiamò e disse: «Mart, è successo». E io seppi immediatamente quello che intendeva. Il suo allontanamento fu un brutto colpo, e di sicuro portò molte complicazioni a causa della serie eccessiva di fobie paterne (papà non riusciva a guidare, non riusciva a volare, non riusciva a restare da solo quando faceva buio). Quest’ultima complicazione impose un sistema di “papà-sitteraggio” da parte dei suoi tre figli finché, coinvolgendo mia madre e il suo terzo marito, approdammo a un’inverosimile soluzione che si protrasse fino alla morte di Kingsley, nel 1995.
Un uomo che abbandona la sua prima moglie ed è egli stesso abbandonato da colei che ha sostituito, perde ogni cosa. Ma non appena Kingsley si trovò riunito a Hilly (anche se solo platonicamente) smise di «sentirsi sconvolto» per Jane. E da lì in poi, mi rincresce dirlo, non disse mai più qualcosa di positivo su di lei. Dopo il 1980, naturalmente, ho visto molto meno spesso Jane. Lei da me voleva più di quello che sentivo di essere in grado di darle. Era sempre stato così. Sin dall’inizio avevo provato qualcosa di vagamente amoroso nei suoi confronti. Le ero sempre molto affezionato e grato. Temo tanto, però, che «l’altra donna» di tuo padre sia fatalmente destinata ad amare il proprio figliastro senza essere contraccambiata in egual misura. La fedeltà al vincolo di sangue che si prova per la propria madre è semplicemente troppo profonda, troppo forte.
«Sono la tua “eccezionale matrigna”» mi aveva detto Jane, dopo che lei e Kingsley si furono sposati nel 1965. Ed era vero: era “eccezionale” nel senso di “straordinariamente e soddisfacentemente buona”. Nella mia ultima lettera, che le ho scritto nel dicembre 2013 dopo una lunga telefonata di compianto, mi sono congratulato con lei per la sua longevità artistica. E le ho citato l’esempio di Herman Wouk, che da poco ha ultimato un romanzo sulla soglia dei cento anni. Mi aspettavo che anche Jane raggiungesse quella soglia. Invece è morta a distanza di un mese scarso da suo fratello minore Colin, un personaggio (affascinante, arguto, gay non molto felice, adorato da tutti, una delle persone dall’indole più dolce che io abbia mai conosciuto) di questa saga di cui si è sempre parlato poco, che aveva vissuto con Jane prima di Kingsley e per buona parte degli anni in cui lei visse con Kingsley. Per motivi che senza dubbio risalgono a un’infanzia triste, Jane aveva un bisogno disperato di affetto. Ma, al tempo stesso, fece sempre scelte disastrose in fatto di uomini. In realtà mio padre, fonte di gioia e di dolori, probabilmente fu il migliore del suo carniere, nettamente al di sopra dell’orribile collezione di ciarlatani, teppisti e mascalzoni. E quindi forse, in definitiva, è Colin che, in modo onorevole, ha ricoperto il ruolo di grande amore nella vita di Elizabeth Jane Howard.

Traduzione di Anna Bissanti
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