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 2014  gennaio 11 Sabato calendario

“VIVO DI FRAMMENTI TRA PESSOA E VAN GOGH”


[Tullio Pericoli]

L’atelier milanese di Tullio Pericoli è spartito in due, con una netta divisione di spazi. Da un lato il grande tavolo dei libri, ammucchiati con una logica preparatoria ben calcolata: foglietti, riferimenti, montagnole tematiche. E dall’altra la «zona» pittura. Con un controllato, ripulito disordine, invaso da ciuffi esorbitanti di pennelli, matite, angoli allacciati di cavalletti ed un inseguimento ritmico di tele interminate: come ben conosciamo dalle sue pirotecniche vedute incise. Allora vien facile di partire da una domanda elementare ed un po’ sciocca, ma forse provocante. «Nullo die sine linea», scriveva Degas, nutrito di cultura classica. Ma Pericoli, l’innamorato del disegno, riesce comunque ad immaginare un mondo senza libri, ricolmo di sola natura: la cellulosa ritornata silenziosamente albero? La pausa esagerata di silenzio, di esitazione, con cui reagisce, «no, scusa, devo riflettere», fa riflettere anche chi quella domanda gli ha posto.
Invece di rispondere prevedibilmente, soggettivamente (è ovvio che un mondo alla Farenheit, monco di libri, sarebbe per lui una sofferenza: basta guardarsi intorno) Pericoli amplia il gradiente del suo sguardo, ribalta l’attesa della domanda. «Certo che riesco ad immaginarlo, un mondo senza libri. Perché lo sappiamo che, a lungo, sono esistite civiltà orali, senza scrittura, e senza la necessità di trascrivere la voce. Ma proprio questo mi interessa, di ragionare sul perché ad un certo punto si è provata l’esigenza di tradurre la voce in segno alfabetico. In simboli, che, combinati, riuscissero a comporre un linguaggio. Questo, più ancora che non difendere la sacralità del libro in sé».
Prima la scrittura, dunque, della pittura rupestre?
«Non so se c’è priorità, forse il meccanismo è lo stesso. Quello della trascrizione dei gesti, dei versi, delle figure del mondo, in un alfabeto. Diciamo, di chiuderle entro forme simboliche. Una vera necessità, che cambia il mondo. Come fu in fondo con l’esigenza del primo artista, di riprodurre quello che vedeva, per esempio la curva di un toro, su di una roccia».
Quindi anche la riproduzione pittorica come simbolizzazione dell’esistente?
«In fondo non c’è vera differenza, è un processo quasi parallelo. Come in natura non esiste la lettera “a”’, ma esiste il suono, così in natura non esiste la linea. Sì certo un albero o la nuvola, sono delle forme, ma la linea esiste solo nel momento in cui siamo noi a tracciarla. Prima non c’era. Siamo noi che abbiamo inventato il contorno, per raccontare pittoricamente il mondo».
Ma la «fine» di un oggetto, di un libro, per esempio, non è già in sé un contorno tagliente?
«No, siamo noi che lo vediamo, che ce lo immaginiamo, proprio nel contrasto colorato tra sfondo ed oggetto. Ma la linea è solo una proiezione del nostro occhio».
In verità la domanda voleva essere un’altra. Ma è concepibile una sua giornata senza una riga di lettura?
«Non credo, anzi, direi che la mia giornata è letteralmente divisa in due parti: il pomeriggio tutto dedicato alla pittura, mentre invece la mattina è riservata alla lettura. Anche se non sempre meccanicamente».
Lettura libera, mirata, preparatoria? In una poltrona o al tavolo, pronto a sottolineare?
«Rigorosamente al tavolo. Certo, sottolineo, prendo appunti, no, difficilmente con degli schizzi accanto alla pagina. Come faceva Van Gogh. Ho appena riletto le sue lettere e sono rimasto davvero impressionato. Non disegno, ho però questa abitudine: rifletto, sottolineo, poi fotocopio le parti evidenziate e mi ricreo un libro-riassunto tutto per me. Una sorta di estratto di quanto voglio ricordare. Perché a me piace leggere proprio per lasciarmi distrarre. Dunque non leggo come uno studioso, con scelte prestabilite o forzose, ma libero, per il piacere di scoprire. Meglio, sento un grande bisogno di questo quotidiano nutrimento, di cui non riesco a fare a meno. E mi piace molto pure questo modo di coltivare la mia distrazione. E’ quello che io chiamo leggere per dimenticare. Ovvero, sono grato a tutto quello che mi ha aiutato a distrarmi durante la lettura, che ha provocato la mia immaginazione, che mi è servito a staccarmi dal libro. Per seguire delle vie più fantasiose, più personali».
Ma quindi dimenticare nel senso che si metabolizza, che si fa proprio, che si vampirizza quanto letto?
«Io dico dimenticare perché suona meglio, al mio orecchio, perché sento che dentro quella parola c’è una sorta di serbatoio aureo di sedimenti, che si è depositato dentro di me, e quando lavorando sento che questa zona nascosta, che avevo dimenticato, anzi, che non sapevo di avere, si manifesta e si ripresenta, è ovvio che non posso che esser grato a tutto quello che ho letto e che mi ha provocato queste sensazioni».
Ma come una «reserve» d’immagini segrete, un inconscio quasi junghiano, che si può condividere?
«No, non direi inconscio, parlerei proprio di memoria sepolta, stratificata, come di sedimenti che vanno recuperati».
La pittura come memoria, come lettura del grande Libro del Mondo?
«Più avanzo nell’età, più ho l’impressione che la mia memoria, la Signora Memoria, sia qualcosa che cresce con me, ma che sia anche una parte staccata da me, che diventi quasi una persona a sé, e che sia lì per gestire una parte della mia vita, arricchendola, nel confronto».
Una figura più funebre, incalzante, che ci tallona, oppure più liberatoria, nutritiva?
«“E’ una figura che dialoga con me, e che mi fa scoprire cose di me insospettate. Ed ogni scoperta di un dettaglio, di un pensiero, di una frase, mi entusiasma ogni volta, perché mi aiuta a ripensare tutto, a rimettere tutto in gioco. Per questo non direi che per me ci siano libri che mi abbiano cambiato la vita, ma piccole frasi sì. Direi che sono più che altro un lettore di frasi, di frammenti».
Più poesia che romanzi?
«La poesia sì, molto. Sto rileggendo Pessoa. Che rabbia non poter entrare dentro le sue rime, non conoscere il portoghese! Chissà perché mi hanno sempre affascinato le rime…».
Forse perché una rima è un obbligo tormentoso che il poeta si regala, ma proprio per potenziare la sua fantasia? E così forse è anche per un pittore, che si obbliga alla fisionomia del suo ritrattato, o alla monotonia del suoi paesaggi, sempre rivisitati, ma per scoprire ogni volta del nuovo?
«Forse, non ci avevo mai pensato. Eh già, è così bello stare in una gabbia, come il Digiunatore di Kafka. Che ha un culto dell’arte, che per lui è solo quello di digiunare, di scomparire».
Curioso, anche un giovanissimo poeta marchigiano, come Pericoli, che amava l’infinito e si chiamava Leopardi, esordì con un poemetto dal titolo: Entro dipinta gabbia… «Sì, che bello. Mi piace davvero molto questa immagine!».