Raphael Zanotti, La Stampa 11/1/2014, 11 gennaio 2014
I GUARNOTTA: “CI SIAMO VENDUTI I MOBILI PER COMPRARE IL BIGLIETTO DEL TRENO”
Con l’urgenza della nuova vita che li aspettava, incerta e misteriosa, hanno venduto tutti i mobili, l’unica loro proprietà. Hanno usato quei soldi per comprare un biglietto del treno. Hanno riempito le valigie di abiti troppo insulari per una città fredda del Nord. Hanno aggiunto un maglione, così come diceva lo zio, che lui da due anni a Torino ci stava, e sono partiti. Altre epoca, altro coraggio. Hanno scommesso tutto sul futuro, ma se oggi sono qui a raccontarlo, seduti intorno allo stesso tavolo nella casa di campagna di Narzole, provincia di Cuneo, è perché quella scommessa l’hanno vinta. Eccoli qui i Guarnotta da Lenzi, provincia di Trapani, che per uno strano gioco del destino, essendosi trasferiti dalla città, qui chiamano i «torinesi».
«È stato mio padre a decidere - racconta Rosa Guarnotta, lavoro in casa di riposo, sposata a un altro siciliano, Vincenzo, mentre mostra la foto pubblicata sulla Stampa - Eccolo, è lui. Bell’uomo era... Qui aveva 40 anni». L’immagine è stata scattata nell’agosto del ’72, stazione di Porta Nuova. Beniamino Guarnotta, l’uomo che ha venduto tutto e ha portato a Torino la sua famiglia, ha una scatola sulla spalla e una valigia in mano. Ha un bottone nero sul bavero, segno di lutto. «Forse una zia morta» dicono in famiglia, ma nessuno ricorda bene. Quel che ricordano bene, invece, è il loro arrivo a Torino.
«Mio padre a Trapani faceva lavori saltuari, non guadagnava abbastanza - racconta Alberto, uno dei figli - Vivevamo nella casa del nonno, in campagna. Poi un giorno mio padre ha deciso: “Andiamo a Torino”. Non ce lo ha chiesto, lo ha deciso, all’epoca si faceva così».
Beniamino, taciturno, lavoratore, quando parte ha già tre figli: Rosa, 13 anni, e i due gemelli Alberto e Giovanni, di 10. Arriva a Torino nell’autunno del 1969. Lavora nell’edilizia, insieme al fratello. Lo stipendio è buono. Lui vive in pensione, ma non può pensare di restare senza la famiglia. E così moglie e figli lo raggiungono nell’agosto del 1970.
«Abbiamo fatto due pacchi, uno con le lenzuola e uno con la macchina da cucire e li abbiamo spediti una settimana prima» racconta Rosa. Poi sono rimasti così, ad aspettare la Grande Partenza. «Un viaggio di 24 ore - ricorda Alberto - Fatto con tutto con i volti schiacciati contro i finestrini tanto il treno era pieno. Ricordo ancora quell’odore di ferro che si appiccica alle mani, ai vestiti». Ventiquattr’ore verso il futuro, verso una città sconosciuta.
«All’inizio non sembrava - ride Rosa - Il nostro primo appartamento era piccolo, lugubre: tre stanze in via Bologna, con la cucina a far da bagno per tutti. Noi bambini dormivamo nel salone, su poltrone che diventavano letti. Quando l’ho visto, ho detto: “Papà, ma dove ci hai portati?”. E lui: “Rosa, è già tanto che abbiamo questo”».
Erano gli anni dei cartelli «Non si affitta ai meridionali», gli anni del grande boom, ma anche delle grandi discriminazioni. Beniamino, passione per la bici e per il ballo, non si è mai arreso. Di giorno lavorava come carpentiere, di notte andava a spalare la neve sui binari. Anche mamma Paola si mette a lavorare, prima come fioraia al cimitero, poi al macello. E la piccola Rosa, in panetteria. È così che, due anni dopo, i Guarnotta riescono ad avere una casa più grande: in corso XI Febbraio. «Aveva l’ascensore, e anche la portinaia - ricorda Giovanni - È in quegli anni che io e Alberto abbiamo scoperto i panini: in Sicilia non c’erano. Ne mangiavamo tanti, come puoi vedere dalla nostra stazza». Quell’anno arriva anche Maurizio, l’ultimo nato. «Io la Sicilia non l’ho mai vista, mai conosciuto i nonni» dice. Arriva il benessere. Beniamino non ha mai scordato la campagna e così tre anni dopo la famiglia si trasferisce a Monticello d’Alba, vicino ad alcuni parenti della moglie Paola. Ma quest’ultima, di lì a poco, si ammala. Rimasto vedovo, Beniamino cresce i suoi quattro ragazzi. Che diventano elettricisti, meccanici, addetti alla pompa di benzina.
«Ha continuato a lavorare fino all’ultimo - racconta Rosa - È morto il 15 marzo dell’anno scorso, all’Epifania era ancora andato a ballare. Cosa ci ha lasciato? L’idea che non ci si deve arrendere mai. E tra le altre cose, adesso, questa foto che ci ricorda le scelte che ha fatto, per garantirci un futuro».