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 2014  gennaio 12 Domenica calendario

JODICE: COSI’ LA MIA FOTO DIVENTA SCULTURA

Mimmo Jodice, dal rione Sa­nità di Napoli, con la macchina fotografica, ha presto co­minciato a gi­rare il mondo che, pure, presto l’ha celebrato. Sulla soglia degli ottant’anni, è tra i più importanti fotografi sulla scena internazionale. Davanti al suo obiettivo sempre il bello che è anche nelle piccole cose, quel­le che altri vedrebbero insignifi­canti. Impossibile elencare tutte le sue mostre e le sue pubblica­zioni, e se pure fosse possibile Jo­dice arrossirebbe nella sua mo­destia. A Reggio Calabria è stato chiamato per fotografare i Bron­zi di Riace, un incontro che Jodi­ce ha da tempo desiderato.

Maestro, cosa ha provato, da uo­mo che ama il bello e da fotografo, davanti ai Bronzi?
«Mi interesso di arte classica. Ho visitato i musei più importanti del mondo, compreso quello straor­dinario di Napoli, però un’imma­gine che ruota nella mia mente dei Bronzi mi ha sempre spinto a vederli dal vero. Finalmente è ca­pitato. Con un’emozione forte. Voglio vederli in silenzio, stare so­lo con loro e cominciare a foto­grafarli innanzitutto con la men­te, immaginando una certa luce, una certa angolazione dell’in­quadratura. Vedendoli ho co­minciato a pensare all’immagine migliore possibile».

Fotografare è sempre un affron­tare le cose. Come affronterà i Bronzi?
«Sì è la stessa cosa. Cercherò so­lo di trovare nel mirino quell’im­magine dei due giovani atleti che ho già nella mente. Penso molto ai dettagli, a delle inqua­drature che possano resti­tuire la loro forza espressi­va e questa mia dimensio­ne straordinaria che provo guardandoli con gli occhi».

Lei ha fotografato già tutta l’opera di Michelangelo e di Canova, cosa l’affascina di una statua?
«È che amo la scultura. Se tornassi indietro e potessi ricominciare da capo la mia storia farei lo scultore. La scultura è una cosa che mi pren­de intensamente».

Forse perché la scultura è ferma, come è ferma la fotografia anche quando rappresenta un movi­mento…
«Non saprei, ma il fatto di pla­smare la forma è un atto straor­dinario. Mi affascina Michelan­gelo quando diceva che la scul­tura è già tutta nel blocco di mar­mo, basta togliere il superfluo. È straordinario fare uscire da que­sta massa, poco alla volta, un’ im­magine».

Si fotografa una statua o un altro oggetto per docu­mentarlo o testimo­niarlo. Nel suo caso, la fotografia di un’o­pera è in se stessa un’opera autono­ma. Com’è possi­bile mutuare questi due lin­guaggi così di­versi?
«Tutto il mio lavoro non è mai sta­to di documentazione, qualsiasi siano stati i generi. Non vado in giro per vedere cose da docu­mentare. Lavoro su dei progetti, cioè su dei temi, su argomenti che possono essere il mare o il mon­do antico. Ma non documento il mare. Cerco di ricavare dalla li­nea dell’orizzonte, l’acqua e il cie­lo, una suggestione forte. Allora non è più paesaggio».

E con la scultura?
«Non cerco di far vedere al me­glio la perfezione della scultura. Chi osserva una mia fotografia di quella scultura non vede un pezzo di marmo o di bronzo, ma un mo­mento vero di vita, un’espressione forte che coincide con i sen­timenti, nel bene e nel male. Nella violenza o nella suggestione strug­gente delle qualità mi­gliori possibili. La mia non è solo la bella fo­tografia che rappresenta al meglio la forma».

La grande diffusione della fotografia, grazie al digitale, non pensa che abbia comportato anche la sua banaliz­zazione?
«C’è sempre stata la foto­grafia del turista, di chi vede e cerca di conserva­re l’immagine. Il proble­ma con il digitale, per la facilità dell’atto di vedere subito il risultato, ha fatto perdere quella dimensio­ne più di impegno che, at­traverso la fotografia, ti porta a rappresentare una tua visione personale. Si punta di più a raccogliere quello che con facilità si trova intorno. Si è persa la dimensione dell’amore per la fotografia».

È cambiato il gesto del fotografa­re?
«Esatto. Prima si spendeva del tempo, per cercare l’inquadratu­ra migliore, per costruire l’imma­gine che sarebbe stata. Oggi ba­sta guarda nel piccolo schermo: tac… tac… tac! Mordi e fuggi. È aumentato il numero dei foto­grafi. È aumentato il numero del­le immagini prodotte, ma la qua­lità non è migliorata».

Lei fotografa in digitale?
«Il digitale? Che cos’è? Mi defini­sco il fotografo della manovella. Infatti, la macchina che utilizzo di più, l’Hasselblad, cos’ha? Ha u­na manovella!».

Quali sono le foto più belle, fat­te… a manovella?
«Le foto più belle le ho fatte con gli occhi. Le tengo nella mente. Di queste foto non fatte segno l’o­rario e il luogo per ritornare poi e scattarle. Spesso non torno, ma se torno, trovo pure quella stessa situazione, ma non più quel fa­scino, quel momento sublime della fotografia che è legato alla tua predisposizione e poi alle condizioni ambientali. Mi piace­rebbe trovare un meccanismo di recupero, che tirasse fuori dalla memoria tutte le foto che i miei occhi hanno fatto…».

Maestro, questo è fantascienza. Può darsi anche che ci arriveran­no, però dovrà rassegnarsi al di­gitale.
«Sì, mi rassegno, ma devono far presto».