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 2014  gennaio 12 Domenica calendario

SISTEMA

D&G - COSÌ GLI STILISTI (E MOLTI LORO COLLEGHI) ELUDONO LE TASSE ITALIANE CON LE HOLDING IN LUSSEMBURGO -
«Ma perché venite da me? Andate a prendere i grandi evasori, quelli sì che frodano milioni». Che è vero, le grandi imprese, quando ci si mettono, di soldi se ne portano via tanti. Ma è anche vero che raccoglie più tonnellate di pesce un peschereccio con rete a strascico carica di sardine che uno yacht che si porta a casa un marlin per volta preso alla traina.
Sia come sia, la cosa giusta da fare è acchiappare tutti: il popolo dell’Iva e i grandi contribuenti; purché evasori, naturalmente. Acchiappare i grandi evasori, però, è più facile. Qui, quando si evade, si evade sul serio. Si chiama elusione fiscale, da qualche tempo nota come abuso del diritto. Volendo semplificare, si studiano forme particolari di rapporti commerciali, in genere tra società straniere e tra queste e società italiane, che – sfruttando i diversi e più favorevoli regimi fiscali di alcuni Paesi – permettono sostanziosi risparmi di imposta.
La cosa in sé potrebbe non essere illecita. Lo diventa quando l’unico motivo per adottare una determinata struttura societaria-imprenditoriale è il risparmio di imposta. Pensate a un’azienda che produce materiale informatico e che trasferisce la sua sede e la relativa fabbrica a Taiwan. Ovvio che vi è convenienza economica: manodopera specializzata, pagata poco (e anche sfruttata parecchio), tasse modeste. In questo caso tutto lecito.
Ma, se questa stessa azienda lascia tutto il suo apparato produttivo in Italia e si limita a spostare le sede legale in Liechtenstein per godere delle tasse bassissime che quello Stato le consente; ecco allora non va bene. Ecco perché l’elusione fiscale non è poi così difficile da scoprire rispetto al nero e alle fatture false: quando si scopre qualche complessa ristrutturazione societaria di cui non si capisce subito il motivo, è molto probabile che gatta ci cova.
Un bell’esempio, che fa capire tante cose, è la storia di Dolce e Gabbana. I due stilisti – fino al 2004 – sono proprietari del loro celebre marchio che gli garantisce guadagni eccezionali: ogni cosa con D&G sopra vale tanto oro quanto pesa; magari di più. Naturalmente, per gestire tanto (meritatissimo) successo, occorre una complessa architettura societaria: i prodotti D&G si vendono in tutto il mondo.
Così Domenico Dolce e Stefano Gabbana costituiscono una holding, D&G srl, di proprietà al 50% di ognuno di loro; mantenendo però la proprietà personale del marchio D&G. La holding, a sua volta, è proprietaria di un’altra società, Dolce & Gabbana srl. Che – cosa importantissima – è licenziataria del marchio D&G: per utilizzarlo deve pagare i relativi diritti – le royalties – ai due creatori e proprietari.
Dolce & Gabbana srl (la seconda società) è anche proprietaria di una terza società, Dolce & Gabbana Industria spa (che, per li rami, è sempre di proprietà personale dei due stilisti); e questa terza società è quella produttiva, quella che realizza i prodotti e li vende.
Caratteristica, dunque, di questa struttura societaria è che tutto appartiene alle due persone fisiche Dolce e Gabbana; ma i rapporti commerciali e finanziari intercorrono tra i soggetti giuridici, le tre società sopra elencate. Quindi Dolce & Gabbana – la seconda società – paga le royalties ai due stilisti. E la terza società Dolce & Gabbana Industria spa, paga gli utili derivanti dalle vendite alla seconda società, Dolce & Gabbana srl; che, a sua volta, li trasferisce alla holding D&G; che infine li distribuisce ai due stilisti. Insomma utili e royalties arrivano ai due dopo essere passati attraverso queste società; ognuna delle quali – attenzione perché questo è il punto fondamentale – paga le relative imposte allo Stato italiano. Così come fanno i due creatori di moda.
Si vede che non si guadagnava abbastanza. E così, nel 2004 tutto cambia: si va all’estero, in Lussemburgo. Qui si creano due nuove società, Dolce & Gabbana Luxembourg s.a.r.l. e Gado s.a.r.l.; il resto rimane in Italia. Ma i rapporti societari sono rivoluzionati. La holding (D&G) controlla Dolce & Gabbana Luxembourg che a sua volta controlla Gado (lussemburghese) e Dolce & Gabbana srl (italiana), quella che era licenziataria del marchio D&G e che pagava (in Italia) le royalties ai due stilisti.
Ma i due a questo punto vendono il marchio a Gado (la seconda società lussemburghese) che lo concede subito in licenza a Dolce & Gabbana srl (italiana, quella che già ce li aveva in licenza ma da parte delle due persone fisiche Domenico e Stefano). Così questa società che, fino al 2004, pagava le royalties ai due stilisti direttamente in Italia; adesso le paga a Gado, in Lussemburgo. Conseguenza: niente royalties pagate in Italia, niente tasse; royalties pagate in Lussemburgo, tasse in Lussemburgo. Di ammontare ridicolo, hanno detto i giudici, c’è stato un accordo con lo Stato lussemburghese molto vantaggioso.
Ma l’appetito vien mangiando. Per migliorare il saldo attivo (in Lussemburgo) e peggiorare quello passivo (in Italia), le royalties sono state aumentate: da 0,5% (quello che Dolce & Gabbana italiana pagava ai due stilisti) si passa a 3,8% (quello che ora viene pagato a Gado, società lussemburghese). Tanto, su questi utili, le tasse si pagano in Lussemburgo; e, grazie ai vantaggiosi "ridicoli" accordi ivi stipulati, sono abbastanza poche.
Questo significa anche che sugli utili spettanti a Dolce & Gabbana srl (italiana) per via delle miliardarie vendite, c’è un’importante deduzione: i miliardari costi che si devono pagare a Gado. Insomma, è vero che entrano tanti soldi su cui si debbono pagare le tasse in Italia; ma è anche vero che ci sono tanti costi e che il reddito alla fine è quello che è. Ci dispiace.
Insomma, utili e tasse vengono spostati in Lussemburgo: i costi restano in Italia. Commissione tributaria e Procura di Milano hanno detto che non sta bene. Ecco questa è l’evasione dei grandi. Importante. Ma ha il difetto di essere fatta alla luce del sole: sgattando un po’ (e studiando il giusto) li si acchiappa. E infatti non è frequentissima. Però cuba, altroché.