Luigi Mascheroni, il Giornale 10/1/2014, 10 gennaio 2014
BELLI, IL CRONISTA DAL SONETTO PLEBEO – [CHE DILETTO IL DIALETTO]
Ci sono libri che in realtà sono due, in uno. Come il Ritratto di Gioachino Belli di Mario dell’Arco, uscito a puntate sulla rivista Capitolium nel 1963, in occasione del centenario della morte di Belli, e pubblicato ora per la prima volta in volume (Castelvecchi, pagg. 136, euro 16).
Due libri, in uno, che raccontano insieme la vita, la poesia e la Roma di Gioachino Belli (1791-1863), e la scrittura, il carattere e la romanità di Mario dell’Arco (1905-96), entrambi romani di Roma, entrambi poeti romaneschi, entrambi così antiaccademici da fare scuola. Stabilire, poi, quale dei due risvolti del libro sia più interessante, e quale dei due autori più «personaggio », è difficile.
Per quanto riguarda il biografo Mario dell’Arco, si può qui ricordare che si chiamava in realtà Fagiolo, che la scelta dello pseudonimo «Dell’Arco» deve qualcosa alla sua attività, passata sempre in secondo piano, di architetto (è autore, fra le altre cose, del razionalista Palazzo delle Poste, a piazza Bologna), che iniziò presto a scribacchiare versi in romanesco, che curò insieme a Pier Paolo Pasolini la grande antologia Poesia dialettale del Novecento , uscita nel 1952, che fondò diverse «rivistine» letterarie, che pubblicò una cinquantina di volumi in versi, e che oggi è considerato uno dei grandi poeti, tout court , del nostro Novecento. È morto nel 1996, nella sua Roma.
Per quanto riguarda il biografato Giuseppe Gioachino Belli, che fece entrare nel canone poetico nazionale la voce del popolo romano dell’Ottocento,basti invece leggere, appunto, il ritratto stupendo che ne fa il concittadino e collega Dell’Arco, il quale spulciando le varie edizioni dei Sonetti romaneschi , leggiucchiando l’epistolario e il diario, e «sforbiciando i passi più illuminanti » delle due biografie storiche di Francesco Spada e Domenico Gnoli, ricostruisce con arte e nostalgia la figura difficile del Nostro (che in vita non pubblicò neppure uno dei sonetti in romanesco) e il carattere eterno dell’Urbe (che ai bei tempi del Belli «era un paesone di cento, centocinquanta anime »).
Schivo, taciturno, misantropo, il cui albero genealogico affonda per diversi secoli nell’humus romano, il Belli si vide passare innanzi Papi, Papi-re, la Repubblica romana, la «peste» francese, il colera che si portò via il padre, combricole di letterati e artisti che frequentò negli anni di scapigliatura giovanile, e poi nobili, gran viaggiatori europei, ciarlatani e principi, presso i quali prestò ufficio di computista e segretario. Poi, partire dagli anni Venti dell’Ottocento,i primi vagiti romaneschi, e la scelta di assumere «i panni, gli atti e la voce del plebeo».Un«cronista dall’endecasillabo facile » che inizia a fissare sulla carta «gli avvenimenti, grossi e meno grossi, che si succedono nel suo felice Paese », un satiro che nulla perdona a pontefici, osti, fruttaroli, becchini, «ricattieri », «caffettieri», padri, madri, figli e «calzettai», e che finisce per scrivere un unico poema - «er commedione» - di 2.279 sonetti, 32mila versi e infinite varietà di toni: allegro, dolente, casto, sensuale, bigotto, sacrilego, castigato, osceno (ma Belli è cattolicissimo, «un pugilatore credente e osservante che prima di scagliare sull’antagonista tutto l’assortimento di cross, swing, uppercut, si fa il segno della croce »).«Una vera e propria commedia - scrive Dell’Arco - Non divina come quella di Dante, ma umana. Non borghese come quella di Boccaccio,ma plebea». Un solo ispiratore, «il dio della Abbibbia ». E una scena stabile: un vicolo, un interno di Trastevere. Protagonista semplicemente - la vita. Che inizia « Nove mesi a la puzza...» e « Poi viè l’arte,er diggiuno, la fatica,/ la piggione, le carcere, er governo,/ lo spedale, li debbiti, la fica,/er sol d’istate,la neve d’inverno.../ E per urtimo, Iddio ce benedica,/ viè la morte, e finisce co l’inferno ».
«Gioachino traduce la sua “realtà” nei quattordici enecasillabi del sonetto». E per farlo recupera una lingua, il romanesco, che non considera un dialetto o un vernacolo della lingua italiana, ma una sua corruzione, «un’altra lingua nella lingua nazionale, generata da sé: un gergo che diviene una lingua poetica», una lingua sentita e ri-scritta, zeppa di «belle parolacce», illuminazioni, sconcerie, nomignoli, metafore sanguigne. «Teologia e folklore, satira e demonismo, oscenità da trivio e tenerezza da interno familiare- sintetizza Dell’Arco- buttàti nello stesso calderone e mischiati con lo stesso mestolo rugginoso ».
Da vivo Gioachino Belli stampò un unico sonetto, Er padre e la fija . Sul punto di morte, avrebbe voluto bruciarli tutti. Ma suo fijo , grazie a Iddio, non lo fece.