Sergio Romano, Corriere della Sera 10/1/2014, 10 gennaio 2014
STORIA DI UNA PAROLA AMBIGUA IL POPULISMO DI IERI E DI OGGI
Il degrado delle istituzioni sembra essere anche conseguenza dell’improprio uso di molti lemmi. Per esempio: il populismo, che era un’ideologia che vedeva nel popolo un modello etico e sociale, è stato degradato al livello di razzismo: il peggior epiteto che si possa attribuire a una persona. Perché?
Qual è l’origine di questa trasformazione?
Giorgio Ricci
gricci35@hotmail.it
Caro Ricci,
La parola «populista» ha un’origine latina, ma secondo il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia fu usata anzitutto in Gran Bretagna, verso la fine dell’800, per tradurre «narodnik (da narod, popolo)»: il termine russo con cui erano definiti i militanti di un movimento politico e sociale nato per «andare al popolo», per strappare le plebi dell’impero zarista alle loro miserevoli condizioni di vita. Il movimento era ispirato dall’amore per gli umili, dalla convinzione che soltanto nel loro cuore fossero depositati i semi della bontà, della giustizia e della verità, i valori che avrebbero redento l’umanità. Questa idealizzazione del popolo ispirò in quegli anni un grande numero di operatori sociali, missionari, intellettuali e lasciò tracce importanti nella letteratura verista e naturalista tra l’Ottocento e il Novecento. Ma produsse anche alcuni fra i più sanguinosi attentati, soprattutto in Russia, dei decenni che precedettero la Grande guerra.
Le prime critiche vennero dai marxisti e in particolare da Lenin, a cui non parve realistico pensare che la trasformazione della società potesse essere affidata allo spontaneismo di gruppi che agivano in modo confuso e velleitario. Per cambiare il mondo, occorrevano organizzazione, disciplina, una valutazione «scientifica» degli eventi storici, una strategia rivoluzionaria. Nato in Russia, il populismo trovò in quel Paese i suoi critici più severi.
Nell’Europa centro-occidentale, dove le condizioni delle masse popolari erano complessivamente migliori e i partiti socialisti potevano agire pubblicamente, il populismo non mise radici. Ma alcune delle sue tesi preferite sulle innate virtù del popolo finirono nel bagaglio ideologico di alcuni ambiziosi uomini politici che ne fecero un uso spregiudicato e si atteggiarono a incarnazione della volontà popolare. Vi sono tracce di populismo in tutti i sistemi autoritari e totalitari del ‘900. Il culto tributato a molti dittatori, da Mussolini a Stalin, ha una evidente matrice populista. Nelle democrazie contemporanee esiste da qualche anno un neo-populismo in cui un tribuno della plebe «va al popolo» per spiegargli che è vittima della globalizzazione, della Commissione di Bruxelles, dei «poteri forti», degli immigrati. Soltanto lui, il tribuno, è capace di interpretare i suoi sentimenti e battersi per i suoi diritti. Il popolo, in altre parole, ha sempre ragione, ma la distanza che separa questo slogan da un altro («Mussolini ha sempre ragione») è brevissima.