Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  gennaio 10 Venerdì calendario

OMICIDI, MAI COSÌ POCHI DALL’UNITÀ AL NORD RISOLTI SETTE CASI SU DIECI


Nelle carceri italiane sono ristretti 9.077 detenuti (di cui 6.049 con una condanna definitiva) che devono rispondere del reato di omicidio volontario. Il numero totale degli assassini o dei presunti tali rinchiusi nelle patrie galere è dunque molto alto — un sesto dell’intera popolazione carceraria — e in qualche modo potrebbe alimentare anche quel comune sentire che tende a espandere la percezione del pericolo ovunque: sulle banchine affollate della metropolitana di una grande città così come lungo una strada isolata di campagna. A forza di leggere la cronaca nera, infatti, ci si sente più insicuri nei luoghi assimilabili all’hinterland torinese di Caselle così come al popoloso quartiere romano della Magliana. Gli autori degli ultimi due omicidi eclatanti — il triplice assassinio che ha distrutto la famiglia Allione accanto all’aeroporto di Torino, e quello che ha annullato la giovane vita di Daniele Fulli sull’argine del Tevere — hanno confessato. Ma la scia lunga dell’insicurezza che lascia dietro di sé ogni fatto di sangue amplificato dai media non si cancella tanto facilmente.
Eppure, in Italia i morti ammazzati sono sempre di meno. Anzi, secondo i dati ufficiali (ancora non certificati dal ministero dell’Interno) nel 2013 si è registrato il tasso di omicidi più basso dall Unità d’Italia. In realtà, le serie storiche disponibili partono dal 1879, anno in cui nel neonato Regno unitario si registravano quasi duemila ammazzamenti. Da allora, cioè 9 anni dopo la presa di Porta Pia, il decremento è stato costante. Una discesa inesorabile interrotta solo in tre periodi eccezionali: i due dopoguerra (circa 2.500 omicidi tra ‘44 e il ‘46) e negli anni bui ‘88-’92 in cui alla mattanza della criminalità organizzata si somma il terrorismo rosso e nero. Poi, dal ‘92-’93, biennio di picco della tecnica stragista di Cosa nostra, la diminuzione degli omicidi è stata di nuovo costante. Fino al 2013, anno in cui viene addirittura abbattuto il muro dei 500 omicidi. Lo scorso anno, infatti, polizia e carabinieri hanno certificato 480 omicidi consumati e 1.207 tentati.
Queste statistiche — elaborate da Marzio Barbagli, professore emerito all’Università di Bologna, su dati forniti dal ministero dell’Interno — dicono molto sull’aspetto quantitativo del fenomeno, un po’ meno su quello qualitativo. Eppure, ammette Barbagli, «a partire dal 2004 il sistema di raccolta e catalogazione dati del ministero dell’Interno è migliorato e ora ha potenzialità straordinarie». Tuttavia, aggiunge il docente, «persiste al Viminale quella resistenza a fornire i dati all’esterno che aveva raggiunto il suo apice con il ministro Pisanu...».
A ben guardare le tabelle elaborate sui dati del Dipartimento della pubblica sicurezza (seppure non aggiornate) si ha la conferma, per esempio, che la criminalità organizzata ammazzi di meno anche se poi gli omicidi compiuti dai sicari delle quattro mafie italiane rimangono per lo più impuniti. Da un lato, dunque, le armi vengono tenute sotto chiave perché le sparatorie fanno male agli affari illegali; dall’altro, fatta la divisione per macro aree della Penisola, emerge un alto tasso di omicidi non risolti soprattutto al Sud e nelle isole: al Nord infatti si risolvono 7,5 casi su 10 mentre nel Mezzogiorno il rapporto è ribaltato, con 5,6 omicidi impuniti su 10. Però «bisogna fare attenzione — avverte Barbagli — perché il dato del Sud è fortemente influenzato dalla presenza delle organizzazioni mafiose in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia». La controprova la fornisce il dato nazionale: quando uccide, la criminalità organizzata la fa franca anche in 9 casi su dieci (triennio 2004-2006); se invece la mano omicida è quella di un criminale che non ha alle spalle un’organizzazione militare, polizia e carabinieri catturano e fanno condannare anche 7 assassini su dieci.
«Tutto questo ha un spiegazione abbastanza semplice», ammette il sociologo Maurizio Fiasco che da decenni studia l’onda criminale dalla Capitale e dal Lazio: «I cosiddetti omicidi strumentali, quelli consumati per un fine diverso, come la rapina, vengono quasi sempre scoperti da quando le tecniche investigative si sono raffinate. Soprattutto da quando sulla scena del crimine hanno fatto irruzione le scienze biologiche, l’esame del Dna, l’analisi millimetrica degli postamenti grazie ai tabulati telefonici e alle telecamere di sicurezza, l’uso del Luminol per rintracciare anche la più piccola traccia di sangue». Come dire, il delitto anche se compiuto da un mezzo «professionista» viene quasi sempre scoperto se poi il crimine non è contestualizzato in un ambiente mafioso- omertoso.
Rimangono da analizzare, dunque, gli omicidi più preoccupanti. Quelli della porta accanto. I cosiddetti crimini «espressivi» che hanno a che fare con un impeto di follia, con uno sguardo sbagliato, con un desiderio o una frustrazione inespressa che poi deflagra in famiglia o nei dintorni di questa. Molti i profili border line dei potenziali assassini pronti a implodere: padri padroni, maschi prevaricatori e violenti (il 30 per cento degli omicidi colpisce le donne), madri fragili e inadeguate fino a sprofondare nell’uxoricidio, i cultori della sopraffazione sessuale, i bulli e le cattive ragazze di periferia come dei quartieri alti.
Il sociologo Fiasco spiega che questo tipo di omicidi — molti dei quali si consumano tra le mura domestiche — «sono in aumento perché sta venendo meno il capitale sociale delle singole comunità: in altre parole, se manca la funzione censoria e di contenimento assicurata da famiglie numerose, per cui strutturate, e dal vicinato; ovvero se manca il freno dato dal legame col territorio, sia esso con la partecipazione a una comunità parrocchiale o a una polisportiva, il potenziale omicida “espressivo” troverà davanti a sé un’autostrada». E tutto questo, contrariamente a quanto si crede, attecchisce più in provincia e negli sterminati hinterland che un tempo erano campagna, piuttosto che nelle grandi città».
Su un punto il sociologo Fiasco e lo statistico Barbagli non concordano: il primo si sente di affermare che «con la crisi economica aumentano gli omicidi espressivi perché la crisi è sofferenza delle persone che poi rivolgono su altri, spesso su chi amano, la violenza subita». Il secondo, dati alla mano, sostiene che negli anni dell’austerità e della disoccupazione aumentano altri reati (come le rapine) ma non gli omicidi. «In ogni caso — chiosa Fiasco non senza polemica — da 10 anni, da quando le statistiche giudiziarie sono passate dall’Istat al ministero, non sappiamo più nulla delle vittime. Non riusciamo più a distinguere un omicidio dall’altro».
Dino Martirano