Paolo Conti, Corriere della Sera 10/1/2014, 10 gennaio 2014
IL GRANDE BUSINESS DEL SUPREMO CHE TIENE IN PUGNO LA CAPITALE
Il suo ultimo sogno era il «Parco Manlio Cerroni», almeno così lui veramente sperava di riuscire a chiamarlo. Sarebbe costato magari un po’, diciamo intorno ai cento milioni di euro, ma il plastico (pronto nel dettaglio, come quello della lottizzazione napoletana che appare nel film «Le mani sulla città» di Francesco Rosi) era bellissimo, esposto all’ingresso della sua amata discarica, era piaciuto anche all’attuale sindaco Ignazio Marino: centomila alberi che avrebbero nobilitato il «capping», la copertura di verde e di natura distesa per cancellare l’orrore di Malagrotta.
Ovvero la spaventosa fossa che dal 1975 al 1 ottobre 2013 ha trangugiato, provocando il disgusto dell’Europa, l’agghiacciante mole di 40 milioni di tonnellate di rifiuti. La più vasta discarica del Vecchio Continente, 240 ettari tra la via Aurelia e Fiumicino, e non è una metafora. Materiale non adeguatamente trattato, sostiene l’Europa: e proprio per questo nell’ottobre 2013 è approdata alla Corte di Giustizia dell’Unione la procedura di infrazione a carico dell’Italia. Mille i pericoli per l’ambiente ipotizzati: inquinamento delle acque superficiali, delle falde freatiche, del suolo e dell’atmosfera. Perché in quel ventre ci sono anche i rifiuti speciali dell’aeroporto di Fiumicino e quelli poco spirituali ma assai prosaici della stessa Città del Vaticano. E basta guardare il cielo del quadrante di Roma Sud, invaso da migliaia e migliaia di gabbiani trasformati in animali di terra, ingrassati e incattiviti dalla straordinaria quantità di cibo a disposizione, per capire che Manlio Cerroni, con la sua Malagrotta, ha modificato per sempre l’ecosistema romano. Nelle notti d’estate, dopo le giornate di caldo torrido, l’odore di decomposizione può arrivare fino a Fregene così come al quartiere Aurelio, a due passi dal Vaticano, dipende dai capricci del Ponentino. In quel tratto di campagna tra Roma e il mare, abitano molti personaggi noti, che per anni hanno protestato contro quell’odore intollerabile: per esempio Ricky Tognazzi con sua moglie Simona Izzo, da una delle ville di Casal Lumbroso. C’era anni fa anche Sandra Milo, protagonista di blocchi di protesta sulla via Aurelia. Inutili. Vani.
A Roma Cerroni significa rifiuti e sterminata ricchezza mista a un potere autentico, quello di chi tiene in pugno intere amministrazioni comunali della Capitale di questo Paese. Un potere coltivato senza ostentazioni, anche se i dipendenti e sostenitori lo chiamavano «Il Supremo», ovvero il padrone dell’immondizia romana. Di quest’uomo incolore, sempre vestito di grigio e con la testa perennemente coperta da un berretto di cotone da un paio d’euro, non si hanno notizie né di ville né di suv. Però si conosce il suo dialetto laziale di Pisoniano, provincia di Roma, baricentro tra Tivoli, Subiaco e Palestrina. Così come è nota la sua religiosità, la sua antica amicizia con Amerigo Petrucci (sindaco andreottiano di Roma tra il 1964 e il 1967). Ha trattato con tutti i sindaci di ogni colore politico e di qualsiasi schieramento, in un’altalena infinita tra chiusure promesse, spesso minacciate, e improvvisi ampliamenti di terreni.
Contraddizione storica che si spiega facilmente con una sola, triste ovvietà: senza Malagrotta, Roma sarebbe morta soffocata dai propri rifiuti. Altro che Napoli. Altro che Palermo. Il ritmo è di 1.800.000 tonnellate l’anno, e appena il 38%, ma solo dalla fine 2013, è materiale differenziato. Cifre ufficiali, tutte da verificare. Ad ottobre Malagrotta è stata chiusa per sempre, non ci sarebbe stato alcun margine possibile di rinvio o di allargamento. Ed a ben riguardare tutta la storia del rapporto tra il Palazzo romano e Manlio Cerroni, l’unico ad essersi opposto fieramente a «Il Supremo» è stato tra il 2011 e il 2012 il commissario straordinario per il superamento dell’emergenza ambientale, l’allora prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro. Assicurò che Cerroni non sarebbe mai riuscito a speculare sulle possibili aree alternative a Malagrotta aggiungendo che la cosa «non gli interessava». Finì che Pecoraro si dimise nel maggio 2012 dopo un estenuante braccio di ferro con Cerroni e dopo aver puntato tutte le carte sull’area di Corcolle, contestata dagli ambientalisti perché ritenuta troppo a ridotto di villa Adriana a Tivoli. Cerroni rimase al suo posto, alla guida non solo di Malagrotta (che avrebbe chiuso ben sedici mesi dopo) ma del suo impero di gestione dei rifiuti che ha ricche propaggini in Albania, Romania, Francia, Brasile, Norvegia. Un «modello Roma» di rifiuti esportato nel mondo.
Oggi Roma, dopo la fine di Malagrotta, fa i conti con la catastrofe dell’Ama, con la foto-scandalo girata in mezzo mondo dei maiali che grufolano tra l’immondizia straripata sotto Natale dai cassonetti di via Boccea. Torna in mente lo sprezzante orgoglio con cui Cerroni chiedeva che il sindaco di Roma, ai tempi Gianni Alemanno, venisse a prenderlo «in carrozza qui a Malagrotta per portarmi fino in Campidoglio e dirmi grazie. Perché io ho salvato Roma, Malagrotta ha rappresentato la fortuna e la salvezza di questa città». Così ragionava «Il Supremo», l’imperatore dei 40 milioni di tonnellate di rifiuti romani. Fino a ieri mattina.
Paolo Conti