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 2014  gennaio 10 Venerdì calendario

OSARE DI PIÙ È NECESSARIO


Qualche anno fa, nel 2007, scrivemmo un pamphlet dal titolo volutamente provocatorio «Il liberismo è di sinistra» (Il Saggiatore). Il messaggio era questo. Aprire alla concorrenza attività economiche protette, a d esempio alcuni servizi come la raccolta dei rifiuti urbani, o varie professioni; eliminare sussidi che tengono in vita imprese inefficienti; premiare la meritocrazia sul serio, cioè punendo chi non si impegna per far posto ai più meritevoli; liberalizzare il mercato del lavoro, aprendolo così anche ai giovani; facilitare il lavoro femminile con una tassazione differenziata per le donne; ridurre il peso distorsivo dello Stato; abbandonare il mito della politica industriale in cui lo Stato agevola questo o quel settore; legare al livello di reddito dell’utente il costo di servizi pubblici oggi offerti gratuitamente a chiunque, compresi i più ricchi. Tutte queste sono riforme che dovrebbero essere proprie di una «sinistra moderna». Un modo per «difendere il capitalismo dai capitalisti» e dalle lobby, compresa quella della finanza, parafrasando il titolo di un libro di Raghuram Rajan e Luigi Zingales.
Il liberismo è «di sinistra» — lo ripetiamo, il titolo era provocatorio — quando riduce privilegi non basati sul merito e favorisce la mobilità sociale, che in Italia rimane molto bassa. Ovviamente a questo liberismo devono accompagnarsi meccanismi di assicurazione sociale costruiti per difendere i più deboli: una tassazione progressiva (inclusa una tassazione negativa sotto certi livelli di reddito) e sussidi temporanei e mirati per chi perde il lavoro. Meccanismi che però vanno studiati bene per evitare che creino più problemi di quanti ne risolvano. Ad esempio per decenni lo Stato ha cercato di combattere la disoccupazione, soprattutto al Sud, creando posti di lavoro pubblici: i risultati sono sprechi, corruzione e un’economia privata che non riesce a c o m p e t e r e . Un altro esempio è la cassa integrazione, un meccanismo che proteggendo il posto di lavoro, anziché il lavoratore (come invece farebbe un sussidio temporaneo mirato), ha impedito che imprese più produttive rimpiazzassero imprese inefficienti. Combinare flessibilità del mercato del lavoro con una protezione temporanea dei lavoratori (la cosiddett a flexsecurity) è un sistema applicato con successo in alcuni Paesi del Nord Europa.
Questo è il «liberismo di sinistra». Del resto, una destra liberista in Italia fatica a imporsi. Per vent’anni governi di centrodestra non si sono dimostrati affatto liberisti, anzi, il ministro dell’Economia più autorevole di quel periodo, Giulio Tremonti, tuonava contro il liberismo, da lui ridefinito con un’accezione volutamente negativa «mercatismo».
Matteo Renzi sembra (la prudenza è d’obbligo, conoscendo la storia statalista e incline alla tassazione del suo partito) aver sposato questa visione «liberale di sinistra». Il difficile ovviamente viene ora. Per attuare molte di queste riforme ci vorrebbe un governo coeso e stabile che ora non abbiamo. Ma alcune cose Renzi dovrebbe chiederle sin d’ora, nel «contratto» che i partiti che sostengono il governo si apprestano a firmare: riguardano il lavoro e le tasse.

Abbiamo un mercato del lavoro che esclude i giovani, indipendentemente dalle loro capacità. Con un tasso di disoccupazione nella fascia d’età 15-24 anni che supera il 40 per cento il problema è troppo urgente per essere rimandato, anche solo di qualche mese. Né è procrastinabile un taglio delle imposte sul lavoro, senza il quale è difficile che le aziende riprendano ad assumere. Per ridurle in modo significativo — non lo spolverino finora offerto dal governo — bisogna tagliare di altrettanto le spese. Servono circa 23 miliardi di euro per portare la nostra tassazione sul lavoro al livello tedesco.
Ieri Renzi ha fatto alcune proposte. Sul lavoro propone l’approvazione di un nuovo «codice del lavoro» entro otto mesi. Troppi. Non si può aspettare così a lungo. Sulle spese ha detto che ogni risparmio dovrà essere destinato alla riduzione del cuneo fiscale. Bene, ma sulle cifre non ci siamo: Renzi cita un miliardo di euro di risparmi sui costi della politica. Non bastano. Perché non cancellare i 10 miliardi di sussidi alle imprese?
Bene la proposta di avviare un «processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti», il progetto di Pietro Ichino. Ma troppo vaga l’idea di un «assegno universale per chi perde il posto di lavoro, anche per chi oggi non ne avrebbe diritto, con l’obbligo di seguire un corso di formazione professionale e di non rifiutare più di una nuova proposta di lavoro». Bisogna chiarire che questo assegno deve sostituire la cassa integrazione.
Infine si devono quantificare i costi di queste riforme. Le si possono fare continuando a soddisfare anche per i prossimi due anni il vincolo del 3 per cento sul deficit dei conti pubblici? A noi pare di no. Ma allora con quale strategia si intende parlare a Bruxelles? Per avere qualche speranza di essere ascoltati dobbiamo dimostrare la massima precisione nei numeri e la massima decisione di intenti, due cose che per ora ci sono mancate.
Alberto Alesina Francesco Giavazzi