Bruno Tinti, Il Fatto Quotidiano 10/1/2014, 10 gennaio 2014
CRITICA, VILIPENDIO E LESA MAEST
SEMBRA che Il Fatto si sia macchiato di colpe gravissime (addirittura di vilipendio secondo Mario Pirani) perché ha reiteratamente criticato il presidente della Repubblica. I profili della questione da considerare sono tre.
n 1) COSA si intende per vilipendio? In verità il codice penale non lo dice. Per questo l’art. 290 fu sottoposto alla Corte costituzionale: una norma a contenuto indeterminato. Ma fu ritenuto legittimo (sentenza 20/74) e la Cassazione stabilì quindi (sentenza 9385/77) che, per vilipendio, si intendono “manifestazioni di disprezzo o di discredito che possono ledere o menomare il prestigio delle istituzioni”.
Sotto questo profilo bisogna ammettere che raccontare come Napolitano abbia fatto male a opporsi a una procedura che avrebbe potuto rivelare il contenuto delle conversazioni tra lui e Mancino si risolve in discredito per la sua figura istituzionale: nascondere si accompagna sempre a cattiva coscienza. Ma, dice la Cassazione, il vilipendio non può essere confuso con “manifestazioni di critica, anche molto aspra, che è dialettica costruttiva, fondamento di un ordinamento democratico” (sentenza 9077/77), sicché “devono ritenersi legittime le critiche e le censure, anche severe, espresse, senza trascendere nel disprezzo e nel dileggio, nell’ambito di una civile e democratica dialettica delle opinioni. Il regime democratico, proprio perché prevede e tutela la liberta di manifestazione del pensiero, e perciò del dissenso, è legittimato a esigere che il diritto di critica alle istituzioni protette si svolga nell’ambito e nei limiti di un civile dibattito, senza trascendere in espressioni di contumelia e di disprezzo” (sentenza 28730/13).
n 2) IL PROBLEMA si sposta quindi sulle modalità della critica. Anche qui Cassazione: “Non si può trascendere in offese grossolane e brutali prive di correlazione con una critica obiettiva” (la già citata sentenza 28730). Ma, a parte che di offese “grossolane e brutali” mai ce ne sono state, è ovvio che la critica di un comportamento diviene inevitabilmente critica alla persona che lo ha realizzato. Sicché espressioni come “Re Giorgio”, per dirne una, sono obiettivamente correlate a un’interpretazione del ruolo di presidente della Repubblica che è legittimo non condividere. D’a l t ra parte, secondo la Corte europea dei Diritti dell’Uomo (Sentenza Mengi v. Turchia 27/11/2012), “il livello di critica tollerabile per persone che rivestono incarichi pubblici è superiore a quello di un qualsiasi cittadino. E uno stile giornalistico informale non può essere considerato un insulto poiché anche le modalità stilistiche rientrano nella libertà d’espressione”.
n 3) INFINE Autorità e autorevolezza sono concetti distinti. Bene l’aveva capito il Re di un piccolo pianeta dove era finito il Piccolo Principe nel suo vagabondare (Le Petit Prince, Antoine de Saint Exupéry) e che affermava di regnare su tutto, perfino sulle stelle. Poi però si era affrettato a precisare: "L’autorità riposa, prima di tutto, sulla ragione. Se ordini al tuo popolo di andare a gettarsi in mare, farà la rivoluzione. Ho il diritto di esigere l’ubbidienza perché i miei ordini sono ragionevol i”. Ecco, quando Napolitano terrà comportamenti ragionevoli (per esempio non si affretterà a stringere la mano ai marò che hanno ammazzato due poveri pescatori) sarà così autorevole da poter esser considerato autorità non criticabile.