Attilio Bolzoni, la Repubblica 10/1/2014, 10 gennaio 2014
LA CITTÀ DEGLI ULTRÀ – [MALATI DI CALCIO]
Si sentono morti, dicono che hanno appena celebrato il funerale di loro stessi. Non hanno più squadra e quindi non hanno più niente. Dopo tre giorni passati in questo posto abbiamo capito che vincere o perdere qui non conta. E il pallone c’entra e non c’entra.
Sarebbe troppo facile scrivere che tutti, tutti quei diecimila o quindicimila uomini, vecchi, ragazzi, bambini, nonni, nipoti, cognati, cugini, padri, figli, pasticceri, operai, consiglieri comunali, fornai, autisti, avvocati, medici, disoccupati, imprenditori, incensurati e pregiudicati ci sono sembrati - tutti - completamente pazzi. Meglio farglielo confessare a loro chi sono e come stanno di testa in quest’inizio di anno nuovo. «Siamo malati, malatissimi, incurabili», riconosce Salvatore Bove, proprietario del bar dello Stadio in una città che non ha un solo stadio ma che è tutta uno stadio. Salvatore, cos’è la tua squadra per te? «Sangue, la mia squadra è il mio sangue, sono i miei globuli rossi».
Dove siamo finiti, salendo sulla cima di una collina che da una parte ha per vista il Vesuvio e dall’altra la costiera amalfitana che si allunga fra la nebbia? Siamo finiti a Nocera Inferiore. «Inferiore per colpa vostra», è la battuta risentita del professore Palumbo, Stefano Satta Flores nel C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, rivolta ai notabili di questa capitale campana che già batteva moneta quando l’odiato capoluogo di provincia Salerno era ancora un borgo marinaro sconosciuto alle mappe.
Proviamo a scoprirla Nocera Inferiore - e non soltanto per colpa loro - cominciando dalla sua edilizia grossolana, palazzotti, castelletti, torri, merli, il cemento dei costruttori amici della camorra, un’estensione grigiastra che ogni tanto è spezzata da caserme borboniche, qualche villa liberty, chiese e conventi segno del passato distinto di una comunità che oggi è stata trascinata nella vergogna dal calcio.
Eccola due mesi dopo la città sportiva della messinscena al 21’ del primo tempo della partita con la Salernitana di domenica 10 novembre 2013.
Tre finte sostituzioni e cinque finti infortuni imposti dalla «legge della curva», gli ultrà dell’Associazione Sportiva Giovanile Nocerina fondata il 10 febbraio del 1910, tre volte in serie B, settemila con la tessera del tifoso voluta dal ministro Maroni (in proporzione Roma ne dovrebbe avere almeno un milione), duecento picchiatori violentissimi sempre al suo seguito, il rosso e il nero come colori sociali e per simbolo un molosso, il cane da guerra che Carlo V di Spagna sguinzagliava contro le truppe nemiche.
Forza Molossi e forza Nocerina, ultima in classifica nella Lega Pro, prima divisione del girone B, un campo intolato a San Francesco d’Assisi e il patron Giovanni Citarella che è un «tipico prodotto locale» - come i «babà» a Napoli e gli «sfincioni» a Palermo - con un gancio dentro la malavita a 23 carati degli anni Novanta e in intimità anche con quella più stracciona di questi tempi. Citarella fa sempre il suo calcestruzzo ma non ha più al fianco i club dell’esageratissimo tifo di Nocera.
«Questa società non merita questa città», decreta il cartello che pende davanti allo stadio dove da quel pomeriggio - il 10 novembre - non va più nessuno. È diserzione totale. Anche i più fanatici restano a casa, anche quelli che andavano in trasferta sui campetti di terra battuta quando si giocava in Eccellenza. Fine di un amore impetuoso. E tutto per quell’entrata dei giocatori all’Arechi di Salerno, ragazzini di 18 o 19 anni, che non avrebbero mai dovuto toccare palla per «solidarietà» con loro, i tifosi lasciati fuori dalla stadio con ordinanza prefettizia per il derby ad alto rischio con la Salernitana. A Nocera lo aspettavano da 28 anni. «Se giocate vi ammazziamo», avevano minacciato prima della partita. I calciatori sono scesi in campo con la maglia con su scritto "Rispetto per Nocera", ma poi - per paura o per altro, tutto ancora da scoprire dalla magistratura sportiva e da quella ordinaria - hanno recitato la peggiore farsa della loro vita. Al 2’ sostituiti Polichetti, Evacuo e Ficarotta. Al 3’ si fa male Remedi, poi anche Hettor al 7’, al 13’ Danti, al 15’ Kostandinovic, al 20’ Lepore. Al 21’ la Nocerina resta in sei e l’arbitro fischia la fine. La curva esulta per la sconfitta, la curva vince.
Onore e disonore di Nocera e della sua squadra. Le polemiche, le lacrime, gli attacchi, il solito conformismo e le solite dichiarazioni degli impomatati dirigenti del Coni e della Lega che fingono di non avere idea di cosa sia qui una domenica di calcio. E poi la verità che si deforma. Ultrà e società erano d’accordo? La società ha scaricato sui tifosi o è stata travolta? Qualcuno ha fatto il doppio gioco? La Commissione disciplinare ha già deferito - «per avere alterato lo svolgimento e il risultato della gara» - 17 fra dirigenti e giocatori della Nocerina. I calciatori non parlano, l’allenatore Fontana non parla. Parla solo Gigi Pavarese, il direttore sportivo: «Oltre a quello fisico esiste anche l’infortunio psicologico, con i miei occhi ho visto tifosi che facevano il gesto di volere tagliare la gola ai giocatori». Faccia da simpatica canaglia, Pavarese è scivolato in una Calciopoli del 2010. Come tuttofare di Luciano Moggi l’hanno pizzicato per le "signorine" offerte agli arbitri. Un infortunio psicologico? Quello però era uno scandalo solo italiano. Il giro del mondo l’ha fatto invece uno spot della Coca Cola mandato in onda dopo la partita con la Salernitana. Un calciatore in maglia rossonera - come la Nocerina - che finge di infortunarsi mentre calcia il pallone. Esce dal campo e festeggia in anticipo il Natale.
Circolo Las Vegas, il club più estremista. Dice Stefano Verticale: «Hanno ucciso la nostra storia». È tutto vestito di rosso e nero. Adesso vuole cancellare il rosso dal suo locale e lasciare solo il nero. Gli risponde Ubaldo Rea: «Stefano, la storia non si uccide». Ubaldo, imbianchino, vanta parentela con Domenico Rea, lo scrittore napoletano che qui, nel «pozzo buio e nero di Nofi», Nocera, è sepolto e ha ambientato il suo bellissimo rom a n z o , N i n f a Plebea. Stefano e Ubaldo sono come in lutto. Fino a quando ci sarà questa società, i tifosi non andranno più alle partite. Soffriranno le pene dell’inferno ma vogliono fuori Citarella, che qualcuno addita come «pentito» per avere ceduto prima, per avere fatto marcia indietro poi. Non è un complimento da questi parti. Chissà come sono andate veramente le cose quel giorno. Lo ignora anche il sindaco Manlio Torquato, uno di destra che come vice ha una di sinistra, che ama la sua città e prova a spingere ai margini i compari dei clan che erano abituati a comandare in Comune. Il sindaco, che non ha mai avuto il sostegno degli ultrà nelle sue campagne elettorali, difende il buon nome di 45mila abitanti: «La nostra tifoseria non è violenta ma appassionata, abbiamo pagato il pregiudizio di essere Sud. E io mi ribello: è una vergogna».
Bar dello Stadio, bar dello Sport, circolo Las Vegas. È un solo grande vulcano. Ce l’hanno con Prandelli («Chi minaccia non è ultrà ma delinquente»)e Letta («Tolleranza zero»), ma cosa avrebbero dovuto dire il ct della Nazionale e il presidente del Consiglio davanti alla tragedia sportiva del 10 novembre o dopo gli scontri del 30 agosto per le strade di Nocera prima della partita con il Perugia? Quindici ragazzi arrestati, una telecamera che li riprende mentre devastano tutto, tre erano già stati indagati anche per le minacce ai giocatori della Nocerina. E tra di loro ci sarebbe stato anche Guido Garzillo, se non l’avessero ucciso sotto casa a metà ottobre. Era un ragazzino, apparentemente tranquillo.
L’anarchia del tifo non sente ragioni. Salvatore Bove scende in cantina e risale con il suo archivio. Coppe, vecchi giornali («Grazie traversa», titola il Trottolino Rossonero dopo un pareggio in casa), cronache della partita di Coppa Italia con la Juve nel ’96, la foto del calciatore più amato di ogni epoca a Nocera, Andrea Pallanch. Si confida un altro tifoso: «Sono pregiudicato per avere assaltato una famiglia e rubato la loro auto dopo la partita con il Savoia: sono contento, io per la Nocerina farei tutto». Uno dei tanti casi che sarebbe piaciuto al professore Marco Levi Bianchini, psichiatra che fra le due guerre ha tradotto in italiano alcune opere di Freud e che a Nocera è diventato direttore del manicomio. Parlano tutto il giorno di pallone ma poi lo stadio è sempre vuoto. Una rivolta dolorosa. Vivere senza calcio è un vivere senza vivere per Nocera. Soprattutto per quella fazione feroce, che tiranneggia gli altri. «Conosciamo la pericolosità di certi personaggi», spiega il questore di Salerno Antonio De Iesu che ha firmato 72 Daspo. Uno anche per Pino Alfano, un consigliere comunale che aveva la delega allo Sport.
Lasciamo il centro della città dove sventolano ancora le bandiere dell’ultima promozione e scendiamo un’altra volta verso lo stadio, infilandoci nei vicoli del quartiere Grotte. Sotto i nostri piedi ci sono i resti di un anfiteatro romano. Fu ampliato dopo furibondi scontri a Pompei - nel 59 dc - tra gli abitanti del luogo e i nocerini dopo uno spettacolo di gladiatori riportato da Tacito negli Annales. Ancora oggi, i nocerini nominano quel precedente rivendicando la loro supremazia sull’altra tifoseria. In realtà, i fatti si svolsero altrimenti. Dopo quella rissa, con morti e feriti, l’imperatore Nerone portò la vicenda in Senato che deliberò la "squalifica" dell’anfiteatro di Pompei per dieci anni. Così decisero di ingrandire quello di Nocera, che diventò il più grande della Campania. Anche se i nocerini preferiscono ricordare il contrario, a Pompei furono mazziati. Forza Molossi.