Elisabetta Gualmini, La Stampa 10/1/2014, 10 gennaio 2014
E SUL LAVORO PROGRAMMA AMBIZIOSO
Con il tempismo che lo caratterizza, Matteo Renzi ha anticipato i contenuti del suo Piano sul lavoro nello stesso giorno in cui l’Istat ha diramato l’ennesimo bollettino di guerra sulla disoccupazione in Italia. E, come d’abitudine, si è tenuto le mani libere presentando il documento come una bozza aperta che verrà meglio definita dopo la direzione nazionale del Pd in programma per giovedì prossimo.
Fino a qui tutto bene. E’ comprensibile che il neo-segretario voglia dare il segno di una svolta su temi caldi e sentiti dall’elettorato. E che non si voglia impiccare ai tecnicismi sui sistemi elettorali, di cui i cittadini hanno le tasche piene. Se non fosse che il Jobs Act è un programma di legislatura, molto ambizioso. Che non si incrocia mai, nemmeno per sbaglio, con il cammino avviato dal governo Letta. Mentre incrocia almeno sei settori di politica pubblica: la politica industriale, quella fiscale, la riforma amministrativa, la rappresentanza sindacale, la sicurezza sociale, la politica del lavoro. Che, con il suo respiro enciclopedico, possa entrare nell’agenda scricchiolante dell’attuale governo, pare difficile. Come il passaggio del cammello evangelico nella cruna di un ago.
I suoi contenuti sono certamente apprezzabili, alcuni già noti, altri piuttosto grezzi. Il contratto unico a tutele progressive è quello ispirato da Boeri e Garibaldi e proposto nei Ddl Madia del 2009 (n. 2639 alla Camera) e Nerozzi del 2010 (n. 2000 al Senato). L’articolo 18 verrebbe sospeso nei primi tre anni di inserimento nella realtà lavorativa, dunque il tabù viene infranto e dire che non ci sarà dibattito è ottimistico. Ci si propone di ridurre le 40 modalità di contratto di impiego presenti in Italia (in realtà sono molte meno) immaginando che la cancellazione sulla carta delle formule atipiche sia sufficiente di per sé a ridurre la precarietà. Come quando dopo una battaglia all’ultimo sangue nella campagna elettorale del 2006 condotta da Rifondazione Comunista e dalla Cgil sull’abolizione della legge Biagi, si abrogò il lavoro a chiamata per poi ripristinarlo negli anni successivi… perché nelle attività stagionali serve! Il collegamento tra l’erogazione dei sussidi di disoccupazione e la disponibilità del lavoratore ad accettare un’offerta formativa o lavorativa c’è già nel nostro ordinamento (dal decreto legislativo 181/2000). Se non ha funzionato, è perché il mercato del lavoro semplicemente non tira.
E’ difficile non essere d’accordo sul «sussidio universale» per chi è fuori da qualsiasi tutela, ma bisognerebbe almeno chiarire a quale dei modelli oggi in discussione ci si ispira, perché cambiano le coperture. Renzi ha varie volte detto (giustamente) no al reddito di cittadinanza alla Beppe Grillo. Allora si tratta del reddito di inserimento introdotto dal primo governo Prodi e poi lasciato alla discrezionalità dei comuni? Del sostegno di inclusione attiva promosso da Giovannini al posto della social card? O altro?
La frase «basta il tempo indeterminato per i dirigenti pubblici» potrebbe essere una bomba ad orologeria e va almeno specificata. Si vuole evitare la reiterabilità all’infinito degli «incarichi» dirigenziali? Da vent’anni (1993), queste posizioni sono già tutte a tempo determinato. O si vuole estendere ancora di più la figura dei dirigenti «con contratto a tempo determinato», assunti su base fiduciaria, senza concorso (lo spoils system)? O addirittura significa togliere la qualifica dirigenziale (oltre che l’indennità) ai dipendenti pubblici a cui non viene rinnovato l’incarico apicale? Di cosa si sta parlando?
Infine, nella bozza non si parla della partita più urgente: come impiegare il miliardo e mezzo di euro che arrivano dal programma europeo Youth Guarantee, su cui Letta ha investito parecchie energie. Non si sa ancora chi li gestirà. E la scelta tra centri pubblici per l’impiego o centri pubblici insieme a quelli privati non è cosa da poco.
Forse da qui al 16 gennaio i contenuti della bozza aperta verranno chiusi. Rimane però una ambiguità di fondo, grande come una casa: due leader di governo e due agende (nella sintesi di Pippo Civati), come se ne esce? Si può zavorrare l’agenda di Letta con il piano lavoro, lo ius soli, i diritti civili, la costituente per la scuola, le riforme istituzionali, tutto nel giro di un anno? Questa ambiguità quanto a lungo si potrà reggere, soprattutto se ai cittadini non arriva moltissimo in cambio? Non sarebbe meglio pochi obiettivi, maledetti e subito?
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