Claudio Gallo, La Stampa 10/1/2014, 10 gennaio 2014
ALAIN DE BOTTON – METTI KANT NEL CDA
In un mondo di specialisti perduti dentro ai loro mondi senza finestre, Alain De Botton eccelle in più cose: romanziere, filosofo, presentatore tv, imprenditore, studioso di architettura. Per gli estimatori è un novello uomo rinascimentale, capace d’incantare il pubblico con una visione che compendia gli argomenti più disparati. Per i detrattori è un pensatore pop, arrivato al successo indorando banalità. Quarantaquattro anni, nato a Zurigo da una ricca famiglia ebraica fuggita da Alessandria d’Egitto, ha studiato e vive in Inghilterra con la moglie Charlotte, nel Nord di Londra, a Hampstead. Qualche giorno fa ha scritto sul Financial Times che nei consigli di amministrazione delle aziende non dovrebbero mancare i filosofi.
Signor De Botton, che cosa sanno i filosofi che i businessmen ignorano?
«In superficie, un uomo d’affari pensa soltanto a produrre soldi. Il filosofo invece cerca di produrre felicità. Le due attività sembrano separate ma in realtà sono profondamente connesse, perché un vero profitto sostenibile può derivare soltanto da una compiuta soddisfazione degli appetiti umani. Si parla molto dei difetti del capitalismo. Del suo produrre un’inquietante disparità tra ricchi e poveri. Ma la cosa più vergognosa, l’oscuro segreto, è che il suo potenziale non è interamente dispiegato. La nostra sventura non è che abbiamo troppo capitalismo, troppa competizione, troppi profitti, troppo consumismo. Piuttosto, soffriamo perché abbiamo una versione rozza e sottosviluppata di un sistema economico che potrebbe darci molto di più. Ammiriamo la potenza organizzativa delle corporation, la loro capacità di indirizzare sforzi enormemente complessi. Tutto è tenuto insieme da una preoccupazione molto semplice e vigorosa: il profitto e il ritorno per gli azionisti. Così i fondi pensionistici dei lavoratori pubblici di Ankara fanno sì che una nave porta-container nello stretto di Singapore porti il manganese che servirà a fare tappi di bottiglie che saranno stappate in un caffè di Dublino».
Una razionalità che però non si applica ai complessi problemi politici mondiali...
«Se si potesse tornare indietro a raccontare quella storia a un ascoltatore acuto e saggio come Adam Smith, lo si colmerebbe di stupore ed eccitazione. Penserebbe che se per i tappi siamo così straordinariamente organizzati, chissà per le cose più importanti. Sarà convinto che dovremmo avere una lista di priorità ormai fissata. Aspetterebbe di sentirsi raccontare con quale sbalorditiva efficienza abbiamo costruito belle città, armonizzato i contenziosi, cresciuto figli equilibrati, lavoratori e felici. Allora dovremo svelargli il nostro vergognoso segreto. Con le bottiglie siamo grandi. L’abbiamo fatto prima e bene. Il resto è ancora tutto da costruire. La sporca verità non è l’inefficienza del capitalismo, ma che le sue ambizioni siano così modeste».
Lei dice che spesso lo scopo del business è «la prosperità del cliente», introducendo in questo modo l’altruismo nell’arena degli affari. È possibile trasformare la natura del capitalismo, la composizione di fatto degli egoismi individuali attraverso il mercato?
«Quando la gente s’infuria per i bonus dei banchieri, non è soltanto per il denaro. Dopo tutto, non ci irritiamo se J. K. Rowling accumula imponenti fortune o se David Beckham è milionario. Sappiamo che Rowling e Beckham si sono arricchiti facendo divertire la gente. Storie affascinanti, calci di punizione magnifici. Odiosa è invece l’idea che i banchieri siano strapagati senza che si possa capire come hanno aiutato gli altri. Così quando siamo stufi del capitalismo, pensiamo che il modello Rowling-Beckham sia un’eccezione. Ma perché non potrebbe essere la norma? Ci sono molte società negative, come Goldman Sachs e Monsanto, che sembrano ansiose di fare profitti senza curarsi se danneggiano qualcuno. Ma talvolta il mondo si entusiasma per attività che sembrano migliorare la vita, come nel caso di Apple o di McKinsey and Co, consulente di top management. Non coltivo troppe speranze che queste aziende possano davvero migliorare le cose. Ma la fiducia che possano farlo è importante, un buon punto di partenza».
Che fanno di speciale?
«Ci aiutano a fare con più efficienza ciò che facciamo. Telefonare è più facile, così come trovare una pizzeria, condividere una foto. Una grande azienda può ristrutturare il personale con fiducia e guardare alle opportunità dei mercati emergenti. Ottime cose che però non toccano il cuore della nostra vita: Apple non può aiutare ad avere un dialogo migliore con la propria madre o aggiustare un rapporto in crisi. Neppure la migliore azienda di gestione del personale può ingentilire le nostre città o aiutare un adolescente a raggiungere l’equilibrio. La cosa strana è che oggi sappiamo come il perseguimento del profitto può essere legato ai veri bisogni della società. Gli esempi non mancano. Il problema è che sono ancora su piccola scala. C’è il delizioso (e molto redditivo) piccolo albergo dal parquet lindo. C’è lo psicologo nella piccola stanza dietro l’ambulatorio medico, che aiuta gli altri a vivere la buona vita (e guadagna), fornendo un aiuto concreto alle loro relazioni. C’è il piccolo club di tennis che fa profitti mantenendo in forma la gente di mezza età. In questi tempi nulla è più prezioso del saper far diventare remunerative le cose buone. Invece di voler cancellare le grandi corporation, dovremo avere una diversa e migliore ambizione: chiedere che guadagnino aiutando la gente».
Dietro al suo approccio filosofico al business c’è la stessa visione umanistica esposta nel suo libroDel buon uso della religione: una guida per i non credenti. La filosofia sarà il coltellino svizzero di questo secolo?
«Attraverso i miei lavori il mio approccio è coerente. Per secoli la Chiesa, la religione, ha fatto da guida. Per la maggioranza non è più così da 50 anni. La cultura, nel senso più ampio, può prendere quel posto: letteratura, arte, poesia, sociologia... e specialmente filosofia. Vedo i miei scritti come un tentativo di fornire, in un contesto laico, quella consolazione che un tempo veniva dalla religione».