Paolo Pejrone, La Stampa 10/1/2014, 10 gennaio 2014
IL NESPOLO, TESTIMONE DI SOBRIETÀ NO GLOBAL
«Col tempo e con la paglia maturano anche le nespole»: è l’antico e saggio refrain di un mondo agricolo che non esiste più.
Il nespolo delle nostre campagne, il Mespilus germanica (anche se il nome è stato ormai usurpato dal più diffuso e recente nespolo del Giappone), produce frutti curiosi, poco invitanti all’aspetto. E dal gusto aspro: solo dopo averli lasciati per un certo tempo in un ambiente freddo e buio, possono essere consumati, fino a quando, per virtuosa sublimazione di fermentazioni e marcescenze, non siano «maturi».
La buccia, dura e rugosa, e i numerosi semi interni ci riportano ad antiche e frugali abitudini, ben lontane da quel mondo asettico in cui viviamo, fatto spesso di pulizie estreme e levigatezze assolute. Non stupisce, quindi, come non ci sia più posto per le rugose nespole e per le loro maturazioni così empiriche e complicate.
Bianchi sono i fiori, grandi e semplici, ricordano come forma quelle del suo primo cugino, il cotogno, e hanno il pregio di sbocciare a primavera inoltrata, quando ormai le gelate tardive sono soltanto un brutto ricordo. Molto belle sono le foglie verde opaco, che prima di cadere in autunno diventano color della ruggine.
È indubbiamente pianta antica e rappresenta in fondo l’antitesi della globalizzazione, essendo caparbiamente legata alla terra in cui cresce, alla piccola comunità che lo coltiva, alle sue tradizioni e ai suoi semplici mestieri. Pur presente in molti paesi europei e dell’Asia minore, dalla quale, pare, provenga, non è mai stato oggetto di una coltura intensiva e massiccia.
Coltivata già dai tempi degli antichi romani, divenne un albero immancabile nei frutteti medioevali, come prescriveva il Capitulare de villis, il ricco e dettagliato documento con cui il futuro imperatore Carlo Magno stabilì le regole che dovevano essere seguite per il buon andamento delle fattorie e delle campagne.
Fu pianta, nei secoli, molto apprezzata anche per il legno, utilizzato, secondo una fonte germanica del XVI secolo, per costruire i forti e robusti raggi delle ruote dei carri.
Indigeno in tutta l’Europa meridionale, da tempi immemorabili è stata piantata anche nelle fredde regioni del nord: dalla Bretagna, dove è alla base di molte ricette locali, e nell’Inghilterra, dove è anche chiamato «gelso nero» (black mulberry) e pare fosse coltivato già dall’anno 1000, addirittura prima delle Crociate…
Fino a vent’anni fa si riteneva che esistesse una sola specie di Mespilus germanica (nome oscuro considerato che, pare, di germanico non ha molto...): al contrario, da poco tempo, è stato scoperto in Arkansas un bosco di alcuni esemplari di Mespilus che producono frutti rossi e lucidi: una nuova specie il Mepilus Canescens.
Sono diverse le varietà presenti in Europa, tutte molto simili e spinose: dal Mespilus germanica monstruosa, che dovrebbe fare frutti grandi come mele ma che io, onestamente, non ho mai visto, al Mespilus germanica Nottingham, una delle cultivar più antiche, con frutti più dolci e di piccole dimensioni; oppure il Mespilus germanica Royal, il più comune di quelli a grande frutto, selezionato in Francia nella metà del diciannovesimo secolo. Probabilmente lo stesso che è stato ritrovato coltivato in valle Ellero, nel Monregalese…
Il più buono al gusto, pare, sia una cultivar innominata, dal frutto a forma ovale, coltivato dal piccolo e «choosy» vivaio di Bartolomeo Gottero (bartolomeo.gottero@gmail.com). Rustico e resistente al freddo, cresce bene in terreni di qualsiasi tipo e non ama essere potato.
Pianta longeva e robusta e non certamente alla moda, il nespolo merita di essere coltivata non più per i frutti ma per fiori, foglie e buon portamento...
Qui in Piemonte, poi, l’albero dei «puciu» è di per sé una presenza antica, quasi storica, ed è qualcosa di più di un piccolo albero. Ricordi di povertà, memorie di indigenze, e testimonianze di sobrietà, riescono spesso a prevaricare il suo semplice e frugale ruolo «vegetativo»…