Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  gennaio 10 Venerdì calendario

LA POLEMICA DI VIRZÌ CON LA BRIANZA? UNA LEGGENDA


«Ma tutto questo con la Brianza che cosa c’entra?», mi chiede alle otto di sera Giovanni Anzani appena scorrono i titoli di coda de «Il capitale umano» di Paolo Virzì. È un grande imprenditore brianzolo e gli avevamo chiesto di assistere con noi alla prima. Ci sono tante polemiche, sulla cattiva rappresentazione che Virzì avrebbe dato della Brianza e dei brianzoli, gente cinica e ignorantotta che pensa solo a fa’ i dané: e così volevamo capire se i presunti bersagli del film si sarebbero offesi. «Offeso? No, assolutamente no. Non ho visto nulla contro la Brianza, anzi non ho proprio visto la Brianza».
Un passo indietro. Lissone, zona di capannoni, soprattutto mobilifici. In una multisala sto aspettando il nostro ospite, o meglio la nostra guida alla visione. È appunto Giovanni Anzani detto Nino, uno dei proprietari della Poliform di Inverigo (profondissima Brianza anche quella), azienda stranota in tutto il mondo per i suoi arredi e il design.

Esporta il 70 per cento del proprio fatturato in 85 Paesi, ma le sue sette fabbriche sono tutte in Brianza. È nata nel 1942. Ha seicento dipendenti in Italia e cento all’estero, fra Londra e New York. Insomma la persona che sto aspettando è uno importante. Tra l’altro, vicepresidente vicario di Federlegno e presidente di Assarredo. L’appuntamento è alle cinque del pomeriggio e alle ore diciassette e zero zero Anzani si presenta perché la Brianza, caro Virzì, è anche questa: puntualità.
La proiezione comincia alle 17,30. C’è il tempo per fare due chiacchiere. Anzani ha una certa dimestichezza con i film perché nelle sue fabbriche è stata ambientata la fiction della Rai «Una grande famiglia», sette milioni di spettatori. Ha letto qualcosa delle polemiche sul film di Virzì e in effetti è un po’ carico: «Ci sono pseudo intellettuali che prendono i soldi dallo Stato e invece di mostrare il buono che c’è in Italia, denigrano. Il tutto viene ripreso dalla stampa straniera e così io che mi ritrovo a vendere all’estero il made in Italy mi sento chiedere: in che Paese vivete?». Aggiunge: «I nostri vecchi ci insegnavano che i panni sporchi si lavano in casa».
Ma poi comincia il film. Che è fatto veramente bene. Il livello è quello dei migliori registi americani. Però uno che conosce la Brianza è assalito a un certo punto da un colossale «Boh». Dov’è la Brianza? Sì, il paese è chiamato Ornate Brianza. Ma la campagna potrebbe essere ovunque; la città è Varese; il quotidiano sempre citato e mostrato, «La Prealpina», è di Varese; il teatro Politeama che si vede è quello di Como; l’assessore leghista vorrebbe portarci, in quel teatro, il coro della Valcuvia, provincia di Varese. Tutto Lombardia, va bene. Ma Como e Varese non sono Brianza. Com’è che è scattata la polemica con i politici di Monza e Provincia? Boh. Anche gli affari dei protagonisti non sono quelli dei brianzoli. Perché? Lo spiega bene Anzani appena finisce il film, quando appunto chiede che cosa c’entri, tutto questo, con la Brianza.
«Il mondo della finanza - dice - non è specifico della Brianza. Anzi è prettamente milanese, e Milano e la Brianza sono due universi lontani. La Brianza che conosco io non è quella che spera di far soldi con le speculazioni: al contrario, è quella che rischia di suo e crea posti di lavoro. Il tutto senza avere mai avuto leggi speciali, fondi o agevolazioni».
Il brianzolo come un benefattore dell’umanità? «Guardi - mi risponde - sia chiara una cosa: che il brianzolo voglia fare i soldi, è vero. Ma non in quel modo lì che si vede nel film. Io vivo in Brianza e uno che faccia il lavoro che nel film fa Fabrizio Gifuni, a me non viene in mente. Il core business del brianzolo è la fabbrica, la produzione. Se investe qualcosa, lo fa con titoli a basso rischio per crearsi una pensione o un tesoretto che possa servire a finanziare l’azienda in tempi di magra. Ma il brianzolo diffida del mondo della finanza: se potesse, i soldi li metterebbe sotto il materasso».
E l’accusa di incultura? I teatri trascurati e lasciati morire? «Ricordo mio padre. Aveva la terza elementare e lavorava dodici-tredici ore al giorno. In Brianza ogni casa, nel dopoguerra, aveva l’abitazione al piano di sopra e il laboratorio al piano terra. Le grandi ville che si vedono nel film? E chi le ha mai viste. Semmai sono arrivate dopo, in anni più vicini a noi, e riservate ad alcuni segmenti. Ma l’imprenditore brianzolo di norma non abita in quelle regge».
Gli chiedo della rappresentazione che Virzì fa del figlio del riccone: un po’ scemo e debosciato, macchinone e sballo: «Purtroppo è una figura reale - risponde - è tutto vero: auto, droga e alcol. Sono la generazione cresciuta con il benessere, del tutto è dovuto. È stato un grosso errore della mia generazione. Li abbiamo viziati. Non siamo riusciti a trasmettere loro la passione per il lavoro».
Al momento dei saluti assicura ancora di non essersi offeso: «Se invece della Prealpina avessero fatto vedere Il Resto del Carlino, poteva sembrare girato in Emilia».
Lo ringrazio per il tempo che ci ha dedicato: «Ma non ho perso tempo. Ho visto un bel film, e mi fa piacere che la Brianza non sia stata denigrata».