Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  gennaio 10 Venerdì calendario

A SGONFIARE RENZI È SUFFICIENTE UNA CALCOLATRICE


Matteo Renzi cade sempre sui conti. A parole il segretario del Pd è bravissimo, anzi un vero e proprio incantatore di elettori. Ma poi, quando si tratta di spiegare la questione dei soldi, cioè di come si finanziano le riforme tanto decantate, ecco che le promesse cominciano a zoppicare. È successo con le pensioni d’oro: a chi gli chiedeva con quali fondi avrebbe ridotto il cuneo fiscale il sindaco di Firenze per un po’ ha risposto che li avrebbe presi da chi percepiva assegni previdenziali da «sogno», cioè sopra i tremila euro al mese. Poi, quando gli hanno spiegato che quelle cifre erano lorde e che alla fine il vitalizio si riduceva a poco meno di duemila euro, mentre le vere pensioni d’oro erano solo cinquecento e tassarle avrebbe portato spiccioli, Renzi ha cominciato a parlarne meno, fino a mettere la sordina alla sua stessa proposta. Passata di moda la stangata sugli assegni previdenziali, il rottamatore l’ha sostituita con un’altra parola d’ordine: rendite finanziarie. È questo il nuovo pozzo di San Patrizio da cui il neo segretario intende attingere i fondi per finanziare le sue promesse, in particolare quella di dare un sussidio a chiunque sia rimasto senza lavoro. Elsa Fornero ha stimato che un’idennità del genere concessa a circa 3 milioni di disoccupati non costerebbe meno di 30 miliardi l’anno, ma forse la professoressa dalla lacrima facile è stata perfino generosa perché altri conti fanno pendere la bilancia più verso i 40 miliardi. Comunque sia, si tratta di una somma da far tremare le vene, che prosciugherebbe l’intera tassazione sulla casa e ancora né la Tasi né l’Imu sarebbero sufficienti.
Eppure Renzi è convinto che, aumentando le tasse sulle rendite finanziarie, si potrebbero reperire i fondi necessari a pagare l’indennità a chi è rimasto senza altra fonte di reddito. È possibile che abbia ragione? Assolutamente no. E per rendersene conto basta dare un’occhiata alle entrate che lo Stato ha incassato lo scorso anno con l’imposta sostitutiva che grava sulle rendite finanziarie che non siano titoli di Stato. A bilancio sono iscritti 5 miliardi e 69 milioni, frutto di una tassazione che oggi è al 20 per cento, ma soprattutto di un andamento borsistico che nel 2013 ha dato ottimi risultati. Ipotizzando di allinearci alla media europea, che è del 25 per cento, l’aumento delle imposte sulle rendite finanziarie porterebbero alle casse dello Stato un miliardo e 250 milioni in più, e se addirittura arrivassimo al 30 per cento l’incasso supererebbe i due miliardi e mezzo, cifra elevata ma comunque molto distante dai 30-40 miliardi che servirebbero per finanziare l’indennità di disoccupazione. Non solo: i due miliardi e mezzo in caso di tasse sulle rendite al 30 per cento sono frutto di un conteggio eseguito su rendimenti al top, ma l’anno in cui la Borsa va giù, come si paga l’indennità? E poi, aumentando la tassazione non c’è il rischio che gli investimenti emigrino altrove, facendo calare il gettito come è già avvenuto in altri casi?
Domande rimaste finora senza risposte, perché Renzi ama lanciare le sue promesse ma evita in tutti i modi di entrare nel dettaglio, in particolare di spiegare la finanziabilità di ciò che annuncia. Un altro esempio? Nel suo «jobs act», cioè il piano per il lavoro (chissà perché insisterà a parlarne in inglese, forse perché fa più internazionale?), il segretario del Pd ha accennato alla promessa di ridurre del 10 per cento la bolletta energetica per consentire alle nostre imprese di mettersi al passo con la concorrenza e dunque avere maggiori risorse per la crescita e gli investimenti. Bella idea: il costo dell’energia è una delle voci che più grava sui bilanci delle aziende. Ma chi paga lo sconto? Risposta di Maria Elena Boschi, parlamentare renziana di fresca nomina: le società elettriche. In pratica, Enel, Edison, A2a, Eon dovrebbero caricarsi il peso di cui si sgravano le imprese. Ora si dà il caso che oggi la bolletta sia così composta: ogni 100 euro fatti pagare al consumatore, 51,25 euro vanno alla società per aver prodotto e venduto l’energia; 14,7 euro vanno alla rete, cioè alla società che gestisce la distribuzione; 20,75 euro servono a finanziare le energie rinnovabili e tutti gli sgravi e regali alle aziende statali; 13,30 euro sono di imposte. Se si carica la bolletta di un dieci per cento, significa che Enel, Edison, A2a, Eon e tutte le altre società del settore dovranno far quadrare i conti con 41,25 euro. In pratica condanneremmo le public utilities ad andare in rosso, perché un taglio del 10 per cento alle bollette, se a carico delle società del settore, farebbe sparire l’intero utile delle società medesime. Ad esempio l’Enel, che lo scorso anno ha guadagnato 865 milioni, dovrebbe dichiarare una perdita e quindi non distribuire il dividendo, gran parte del quale va allo Stato, che dunque vedrebbe aprirsi una nuova falla nel suo bilancio. E alla fine chi pagherebbe tutto ciò? Certo non Renzi, al quale la questione dei soldi pare un inutile dettaglio, anzi un ingombro che ostacola le sue affascinanti promesse. Sarà per questo che la Corte dei conti ha censurato la sua gestione quand’era presidente della Provincia e il suo ex assessore al bilancio critica quella da sindaco di Firenze? Il nostro è più di un sospetto.
maurizio.belpietro@liberoquotidiano.it
@BelpietroTweet