Francesco Borgonovo, Libero 10/1/2014, 10 gennaio 2014
IL CAPITALE UMANO DI VIRZÌ? GLI INSULTI
Paolo Virzì non l’ha presa bene. Ieri, intervistato da Malcom Pagani sul Fatto, ha risposto da gran signore alle critiche che gli ha mosso Libero. «Dopo 25 anni di cinema e undici film, mi ero illuso di meritarmi una polemica seria», ha detto. «Invece, niente. Mi ritrovo con una farsa di basso conio sbattuta su un orribile giornalaccio». Il giornalaccio, ovviamente, sarebbe il nostro. Il regista sostiene che avremmo portato la discussione «in una zona oscura in cui il ragionamento è sopraffatto dai fantasmi della politica». Ripete che «il livello della riflessione proposto da Libero è desolante».
Se Virzì aveva tanta voglia di arrabbiarsi con un giornale, forse ha sbagliato bersaglio. Invece di insultare Libero, dovrebbe prendersela con i suoi amici di Repubblica e del Fatto. I quali, nella smania di sviolinarselo incensando il suo nuovo film Il capitale umano, non gli hanno fatto un grande favore. Per esempio, Pagani scrive sul Fatto che la nostra è «una aggressione da commedia all’italiana» basata su «un paio di mezze frasi estrapolate da un’intervista di Natalia Aspesi per Repubblica». Mezze frasi un corno, sono frasi intere, e piuttosto pesanti. È per colpa di quelle frasi che gli amministratori locali della Brianza e di Como (di destra e di sinistra) si sono sentiti giustamente offesi da Virzì.
«Ho girato nella campagna di Osnago», spiegava il regista alla Aspesi, «nel centro storico di Varese, di Como, città ricchissima che esprime il degrado della cultura con quel suo unico teatro, il Politeama, chiuso e in rovina. E che ha una parte importante nel film, come simbolo di un inarrestabile degrado e sottomissione al denaro». In poche righe ha dimostrato di non sapere nulla dei territori che voleva raccontare. Como è una città che ha sentito i morsi feroci della crisi. Ma ha continuato a produrre cultura. Ha un altro teatro, il Sociale, che funziona molto bene. Organizza mostre e festival letterari. Ma Virzì, parlando con Repubblica, ha dato fuoco alle polveri dello stereotipo. Voleva ambientare la sua storia in «un paesaggio che mi sembrasse gelido, ostile e minaccioso». Un luogo comune via l’altro. Non bastasse, ci si è messa Concita De Gregorio a rincarare la dose, descrivendo una «terra dei ricchi» in cui il freddo è «dentro casa e anche fuori». Un luogo in cui si va portandosi nello zaino «le lamette per la disperazione, l’alcol per non pensarci, uno zainetto e una tuta per scappare,casomai». Nessuna mezza frase. Piuttosto sentenze che fanno male a regioni in cui la gente si ammazza di lavoro e ultimamente si ammazza anche perché il lavoro non c’è più, né per gli imprenditori né per gli operai.
Dice Virzì al Fatto: «Volevo essere maltrattato sul contenuto, affrontare una critica oggettiva». Ci accusa di non avere visto il suo film. Invece l’abbiamo visto, ne abbiamo persino parlato bene. Aggiungiamo pure che, a livello di sceneggiatura, la trasposizione del romanzo di Stephen Amidon è ben riuscita e, tra gli attori, Fabrizio Gifuni e l’esordiente Matilde Gioli offrono un’ottima prova. Ma forse è Virzì che non si degna di sfogliare il nostro «orribile giornalaccio ». Vuole essere attaccato sul contenuto del film? Beh, poteva limitarsi a far parlare la sua opera. Noi gli abbiamo contestato le parole irrispettose e superficiali che ha detto ai giornali. E, anche qui, il regista dovrebbe fare un po’ di chiarezza, prima di tutto con se stesso. Rispondendo via Twitter al direttore dell’Intraprendente Giovanni Sallusti, ha scritto: «Ma io voglio bene al popolo del Nord, so a memoria i cori alpini e adoro il risotto. Sono quelli di Rep che mi dipingono così». Se la prenda con loro.
Il fatto è che, nel Capitale umano, della Brianza c’è poco o niente. I personaggi si esprimono con un forte accento, appare il solito assessore leghista ignorante (quello sì, da commedia demenziale all’italiana), si vedono tanti paesaggi innevati. Per il resto, la pellicola avrebbe potuto essere ambientata ovunque. Lo ha detto persino Virzì al Fatto: «Come non è davvero Como, la Brianza ovviamente non è la Brianza e il campanile in questa pseudo tavola rotonda non c’entra niente». Bene, allora poteva risparmiarsi certe roboanti sparate. Il bello è che ora, per darsi un tono, chiama in causa Mogol e Battisti e la loro «Brianza velenosa».
Michele Serra, sempre via Repubblica, gli corre in soccorso dicendo che «intenerisce l’orgoglio offeso delle autorità brianzole (quelle leghiste, almeno)», forse ignorando che pure a sinistra si sono irritati. Il buon soldato Serra cita Gadda e Ian McEwan e i loro strali contro il Nord. Ma Virzì non è Gadda, il suo film non ha la forza satirica dei romanzi di Mastronardi su Vigevano e neppure la potenza del celebre incipit del reportage di Giorgio Bocca che in un colpo secco inquadrava la città: «Soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, scusate, non le ho viste». Erano pagine amare, dure, ma che contenevano lampanti verità. Va bene farsi ferire, ma che l’arma sia appropriata.
Infine, Virzì lancia la sfida: «A Belpietro vorrei dire: “Ti prego, fatti avanti, proponi una riforma culturale credibile e luminosa per il futuro e ti verremo incontro a braccia aperte”». Di proposte questo giornale e il suo direttore ne fanno da anni. Per esempio l’abolizione del finanziamento pubblico al cinema. E non ci riferiamo solo ai 700 mila euro che ha preso Virzì (per altro è la stessa cifra che, nel film, il cialtronesco Fabrizio Bentivoglio investe nel fondo dello spietato Gifuni). Se oggi la cultura boccheggia e teatri come il Politeama sono chiusi, è soprattutto colpa dell’intervento dello Stato e delle sue storture. Lo stesso Stato che non paga le commesse agli imprenditori brianzoli strangolati dalla crisi, i quali si devono pure sorbire le paternali dei fini intellettuali di cui sopra.
Poi, ma qui forse chiediamo troppo, ci piacerebbe che i registi italiani e i loro sceneggiatori mettessero da parte il pregiudizio e l’ideologia, l’ossessione del «berlusconismo » imperante. Fuori dal loro ombelico c’è un mondo pieno di storie da raccontare. E il bello delle grandi opere è che parlano da sole: non hanno bisogno di interviste a Repubblica e al Fatto.