Mattia Feltri, La Stampa 10/1/2014, 10 gennaio 2014
L’ASCESA DI TOTI IL “PUPINO” SENZA SPIGOLI
Giovanni Toti – soprannominato amorevolmente “il Pupino” in mancanza di una “t” – per bocca di un dirigente di Mediaset ha “un ruolo di servizio e di affetto”. Lo ha nei confronti di Silvio Berlusconi e dell’intera azienda. Non gli vuole male nessuno, lì dentro. Nessuno a Cologno ha da ridire su di lui. «Smussa, attenua, compatta», dicono. E questa è musica di violino per il Capo, che fuori dalla porta ha file di aspiranti beati, tutti che si accreditano come ultimo baluardo del berlusconismo contro subdoli nemici intestini: il che ha fatto di Forza Italia un partito di falchi tendenza avvoltoio. Una famelica propensione concentrata ora proprio su Toti, del quale i pretoriani forzisti dicono che è leggerino e senza esperienza e alla sua nomina a coordinatore organizzativo frappongono questioni burocratiche, e cioè convocazioni di assemblee, necessità di firme, cambi di statuto: robe però buone giusto a prendere tempo e a scocciare il Sire, che la sua decisione l’ha presa.
Giovanni Toti gli piace. Piace tanto anche ai figli, Marina e Pier Silvio, che dal bidirettore (Tg4 e Studio Aperto) non ricavano grane perché lui le grane preferisce risolverle. E’ accomodante, è un uomo garbato, non alza la voce, non sparla degli altri, evita i litigi. «E’ un salesiano», dicono a Mediaset con morbido trasporto. Frequenta Arcore da qualche anno - come è diventato costume per i direttori d’area - e ci va soffice soffice, una piuma, non porta con sé lamentele, non ha rivendicazioni, mangia con gusto e garbo, si guarda le partite con partecipazione mai eccessiva. Parla di politica perché lui, a differenza di altri direttori cari a Berlusconi in altri tempi, ha una testa politica, di quelle che sminuzzano e ricompongono, e non se la rivendono come una faccenda di stomaco. Da ragazzo, a Massa Carrara, da dove viene (è nato a Viareggio) era un giovane socialista non anti-craxiano. Ma questo c’entra poco. C’entra che Toti la politica ce l’ha dentro, la capisce e la maneggia: altro che front-man, come dicono in San Lorenzo in Lucina quelli terrorizzati da Annibale alle porte. E così, quando si chiamano gli amici di Cologno, e gli si chiede ragione del mistero Toti, rispondono: «Mistero? E che mistero? Era ovvio che finisse così».
Le qualità del bidirettore paiono infinite. E’ giovane (sempre secondo i canoni moderni: ha 45 anni, due meno di Enrico Letta, due più di Angelino Alfano, sette più di Matteo Renzi). Per quelli alla Daniela Santanchè è una specie di anticristo, perché non ama la zuffa e non considera nemici gli avversari.
Conosce la politica ma non è casta. E’ brillante ma non ganassa, competente ma non borioso. A Mediaset non hanno nemmeno dovuto testarlo, perché in tv c’è da sempre, e quando ha messo piede a Ballarò e Piazzapulita se l’è cavata bene, e a giudizio del Cav pareva «uno di noi», e non intendeva uno del partito ma «uno del popolo». E’ servizievole come la casa ormai chiede, e lo si è visto nello speciale «La guerra dei vent’anni» sui processi a Berlusconi, o in alcune interviste a Berlusconi medesimo, puntellate di domande non proprio aggressive. Al contrario della giullaresca compagnia romana, evita di privatizzare il rapporto col principale. Non gli succhia il sangue. Non lo vuole fregare, si dice, perché la carriera l’aveva già fatta e fuori dagli organismi romani. Non ha avversari temibilissimi, almeno non della sua generazione e della sua indole. E poi, e non è paglia, contribuisce a lenire il dolore del padre per il tradimento di Angelino Alfano, che si è dimostrato un vicerè derobertiano, sebbene di calibro adeguato ai tempi. E forse, un giorno, sarà Giovanni a riportare a casa il fratello smarrito, con il quale conserva (e ti pareva) un rapporto affettuoso. Magari i sondaggi non sono trionfali, magari Toti non sarà mai il candidato premier da contrapporre a quel cannibale di Renzi, ma sarà senz’altro – invidie o no, burocrazia o no – il gestore del partito e soprattutto il depositario del simbolo. Basta lunghi coltelli, trabocchetti, miserabili delazioni. Basta con quell’aria mefitica perfettamente sintetizzata da Emilio Fede pochi giorni fa alla Zanzara: «Mi rode il c… per il successo di Toti». A Toti, piuttosto, roderà che gli tocca la dieta, lui che ama la buona tavola e lo dimostra sui fianchi, e poi gli toccherà sistemare le prime imbiancature di chioma: sulle questioni di fondo non si discute.