Carlo Annese, GQ Dicembre 2013, 10 gennaio 2014
I MOSTRI DI EMMANUEL CARRÉRE
Se non lo avete letto, ne avrete certamente sentito parlare. Passata l’inutile sbornia per le Cinquanta sfumature di grigio, Limonov è il libro che da oltre un anno chiunque dice di avere amato, divorato, consigliato o, alla peggio, regalato.
In realtà la biografia di questo sconosciuto dissidente russo, eroe e fascista allo stesso tempo, ha venduto a fatica centomila copie (che in un Paese di non lettori è comunque un bel numero). Ma il più classico esempio di successo che attraversa i salotti borghesi e i sedili dei metrò. È bastato che Adelphi, dopo averlo lanciato a settembre del 2012, ripubblicasse quest’estate L’avversario, un altro libro uscito alcuni anni fa, perché Emmanuel Carrère, uno dei più grandi scrittori francesi viventi, diventasse una rockstar: folle in delirio ai festival letterari, apparizioni tv e code interminabili per un autografo.
Limonov è un avventuriero senza scrupoli; Jean-Claude Romand, protagonista de L’avversario, uno squilibrato che ha sterminato la famiglia dopo aver mentito per 18 anni sul fatto d’essere un medico. Che cosa la attrae in questi uomini: la follia, il coraggio, la spudoratezza?
«Il fatto che siano reali, anche se diversi tra loro. Quando lessi di Romand sui giornali, fui immediatamente attratto dalla storia, più che dall’uomo. Per Limonov, invece, il processo è stato lungo: l’avevo conosciuto negli Anni 80 e non pensavo fosse un personaggio da romanzo. Tornando in Russia molto tempo dopo, mi sorprese la popolarità che riscuoteva nei circoli democratici: a me sembrava un fascista orribile. Pubblicai un lungo reportage su un magazine francese, poi decisi di farne un libro. Non sapevo cosa pensare di lui, tuttora non lo so, ma trovo che questo “non sapere” sia un ottimo motore per scrivere. Lo stesso vale per Romand: ero orripilato dalla sua strage, ma la mia idea dell’uomo se fosse un mostro, una vittima o il diavolo in persona conteneva la medesima ambiguità che avevo per Limonov».
Ma in entrambi i libri lei esprime un giudizio morale.
«Certo, e questo cambia da pagina a pagina, accrescendo la complessità. Soprattutto con Limonov mi è capitato di pensare: “Che pezzo di merda, che incredibile egomaniaco!”. E poco dopo: “E così coraggioso, si prende le sue responsabilità. Lo ammiro”. C’è qualcosa in cui credo fino in fondo, anche se non è un criterio scientifico: l’accento della verità. In ogni mio libro c’è un momento in cui si sente, e penso di avere un buon orecchio».
Perché ha raccontato entrambe le storie ponendosi in prima persona?
«Per scegliere questi personaggi ho bisogno che siano molto lontani da me, cioè abbiano avuto esperienze di vita profondamente diverse dalla mia, ma nello stesso tempo che condividano con me alcuni sentimenti. Nel caso di Romand la paura, la depressione e la nevrosi; in quello di Limonov il sogno di un bambino che ha letto Dumas. Ma tra l’uno e l’altro c’è un’altra differenza importante».
Quale?
«Scrivere su Romand è stato un calvario psicologico che mi ha fatto star male e ha prodotto un libro pesante, difficile da muovere. Quello su Limonov è stato quasi divertente: disapprovavo ciò che aveva fatto o stava facendo, ma in lui c’era una vitalità che ha trasmesso anche a me e che si avverte nel ritmo della scrittura. Generalmente le mie opere sono lente, riflessive, invece Limonov si sviluppa in una sorta di “Allegro vivace”».
Il successo ha cambiato il suo modo di scrivere?
«Raccontare certe storie è umanamente delicato: spero di essere stato abbastanza attento. Da un punto di vista creativo è stato utile, poiché mi ha dato fiducia in un tipo di scrittura che crea una relazione intima con il lettore: mi piacerebbe che ascoltasse me come ascolta un amico. Mi auguro che ci sia gente che compra un mio libro per la prima volta, ovvio, ma più o meno consciamente so di scrivere per una piccola comunità che mi conosce bene e che a mia volta penso di conoscere».
Limonov sarà pubblicato anche negli Stati Uniti a gennaio. Come sarà accolto?
«Non ne ho idea, anche perché ho lavorato con un editore molto rigoroso. Ha voluto che ogni frase fosse verificata alla lettera: in un libro basato su situazioni e dialoghi ricostruiti a memoria era quasi impossibile, e questo l’ha mandato in confusione. Di sicuro mi ha sorpreso il seguito che Limonov ha avuto in Europa. Ero convinto che il libro precedente, Vite che non sono la mia, avrebbe avuto più successo: non immaginavo che ci fossero così tanti lettori curiosi di leggere la storia di un oscuro poeta russo, neanche troppo simpatico».