Frèdèric Taddei, GQ Dicembre 2013, 10 gennaio 2014
VISTO DA WOODY ALLEN
Da quando ho l’età per andare al cinema non ho mai perso un film di Woody Allen. A 16 anni pensavo fosse una passione adolescenziale, ma non mi è passata. Finalmente ho avuto l’occasione di incontrarlo, all’hotel Le Bristol di Parigi.
In Europa la consideriamo un genio, ma lei ha dichiarato di non avere mai realizzato capolavori... «Rashomun, La grande illusione, Ladri di biciclette sono capolavori. I miei film non rientrano in questa categoria».
La sua attività è impressionante: 45 film in 47 anni. Perché questo ritmo?
«Un anno è lungo! Se comincio a girare a metà luglio, a fine agosto le riprese sono terminate. Poi c’è il montaggio, che grazie alle nuove tecnologie digitali è rapidissimo: a fine settembre il girato è pronto. Resta da pensare alla musica. A fine novembre il film è finito. E allora che faccio? Quattro passi, qualche museo, ma in tre o quattro giorni sono già lì che mi annoio. E mi rimetto a lavorare».
La magia, il clarinetto, la scrittura: lei pratica attività solitarie. Perché, allora, si è dedicato al cinema?
«Anche il mio modo di fare cinema è solitario. Sul set parlo poco. Sono cordiale, ma in 47 anni di lavoro non ho mai cenato con un attore. Non sono tanto socievole».
Negli Anni 80, per fare colpo con una ragazza, la si portava a vedere l’ultimo film di Woody Allen...
«E l’effetto che io chiamo “snob appeal”, il fascino dello snob. Purtroppo, non funzionava quando portavo io le ragazze a vedere i miei film».
Woody Allen non è il suo vero nome: cambiare identità è stato un modo di negare la realtà?
«La vita reale è spaventosa, tutt’altro che romantica. Molta gente della mia generazione è rimasta segnata da Humphrey Bogart, da Gary Cooper... Le donne, nei film, sono meglio che nella vita reale. Il cinema ci ha fatto del male. Molte coppie si sono separate per colpa di questo equivoco. Più banalmente, ho adottato un nome d’arte perché ho cominciato a scrivere sui giornali quand’ero ancora al liceo. E non volevo che i miei compagni lo venissero a sapere».
Le protagoniste del suo nuovo film, Blue Jasmine (questo mese nei cinema italiani), sono due sorelle. Ancora personaggi femminili, dunque. Perché?
«È un caso. All’inizio scrivevo sempre dal punto di vista maschile. Poi ho conosciuto Diane Keaton, che ha avuto su di me un’influenza importantissima. Ho cominciato a scrivere per lei e a vedere le cose con i suoi occhi».
E chi le ha ispirato la protagonista Jasmine?
«È stata Soon-Yi, mia moglie: aveva sentito parlare di una donna che abitava non lontano da noi, una signora molto ricca e molto generosa che, per non si sa bene quale ragione, aveva assistito al crollo di tutto il suo mondo. Possedeva diamanti, ville, aerei privati e di colpo si era ritrovata senza niente. Il suo matrimonio era entrato in crisi. Aveva perduto la casa e si era dovuta mettere a lavorare per la prima volta in vita sua. Ho pensato che potesse essere un buon soggetto per un film. All’oscuro delle truffe del marito, che è anche un donnaiolo, a un certo punto la protagonista prende coscienza e si vendica rovinando l’esistenza a tutti. Anche al figlio e a se stessa».
Lei è un ex monello di Brooklyn che è riuscito ad arrivare al lusso dell’Upper East Side di Manhattan. Anche lei si sente un po’ come Jasmine, o no?
«Assomiglio, piuttosto, alla madre compulsiva e nevrotica interpretata da Geraldine Page in Interiors. Non mi integro bene nel mondo. E non sono ricco quanto Jasmine. Non potrei mai permettermi un jet privato e possiedo una sola casa. Del resto rinuncio spesso al mio compenso per poter fare una settimana di riprese in più. Ho sempre ritenuto ingiusto che le star del cinema guadagnino più dei professori. Io non sono molto ricco a paragone di certi attori, ma in confronto agli insegnanti, ai medici e ai pompieri sono ricchissimo. Vengo ben pagato per le mie barzellette, ma pago anche tante tasse: mi sembra del tutto normale».
Avrebbe scelto di fare il professore se ci fosse stata la possibilità di guadagnare bene e di incontrare tante donne bellissime?
«Se le insegnanti fossero state belle come le attrici, sarei forse diventato un professore, sì. Più che per i soldi, si può dire che faccio questo mestiere perché si incrociano donne molto belle. Anche altri artisti vi diranno che è questo il motivo per cui hanno scelto la carriera nel cinema. Mi alzo, la mattina, e incontro Diane Keaton, Mia Farrow, Julia Roberts, Charlize Theron... Posso toccarle, abbracciarle».
Blue Jasmine parla dei rapporti di classe, che in America sono spesso particolarmente crudeli. In questo film la lotta si sviluppa, addirittura, all’interno di una famiglia...
«C’è chi sta in cima e c’e chi sta in fondo alla scala. Chi sta in alto ha problemi meno gravi. Nella scena iniziale di Stardust Memories si vedono due treni che si incrociano. Il primo è pieno di gente felice che festeggia. Sul secondo viaggiano persone infelici e dimesse. Alla fine arrivano tutti alla stessa discarica di rifiuti. La vita è un gigantesco incidente completamente privo di senso in cui il caso gioca un ruolo importantissimo. Non sempre le persone riescono ad ammetterlo, ma la fortuna gioca un ruolo fondamentale. Rendersene conto è spaventoso, perché questo significa che noi non controlliamo assolutamente nulla».
Ma lei ha vissuto sul treno festante, con le belle donne e il buon vino...
«Ho avuto più possibilità di uno che lavora per strada con il martello pneumatico. In ogni caso, alla fine, ci si ritrova tutti nello stesso posto. E poi chissà, un muratore magari torna a casa la sera e trova i suoi bei bambini, ha una vita sessuale appagante, mentre un banchiere moltiplicherà le sue tresche amorose. Non si misura la qualità della vita in base alla quantità di champagne che si consuma».
Blue Jasmine tratta anche il tema dell’adozione. Come mai?
«Volevo mettere in scena il rapporto tra genitori e figli adottivi. Una delle due sorelle ha ricevuto molto amore, l’altra è stata un po’ trascurata. Quando quest’ultima perde tutti i soldi vinti alla lotteria se ne fa una ragione. La sorella ricca, abituata al lusso, perde il controllo alla prima preoccupazione. Chi appartiene alla classe media, più abituato alle difficoltà finanziarie, reagisce meglio in caso di problemi».
Nei suoi film è raro che il malessere dei personaggi sia legato a difficoltà economiche, professionali, o a problemi di salute, ma è di natura esistenziale.
«Come cittadino sono preoccupato e impegnato politicamente. Come regista, invece, mi interesso unicamente di questioni esistenziali. Blue Jasmine non è un film di analisi sociale o sulla crisi finanziaria. E solo la tragedia esistenziale di un personaggio. Intorno a lei, le persone perdono la testa e si suicidano».
I problemi esistenziali sono privilegi da ricchi?
«No. Semplicemente, chi stenta a sbarcare il lunario non ha il tempo di occuparsi del proprio inconscio».
Quando lei ritrae le classi popolari è piuttosto crudele. John Ford, Ernst Lubitsch e Frank Capra, invece, mostravano la nobiltà del lavoro manuale...
«Ford, Lubitsch e Capra appartengono a una generazione plasmata da Hollywood ed erano sempre in cerca della bellezza. Io non lavoro a Hollywood. Posso quindi permettermi di dire che la povertà è crudele e non sono obbligato a ricorrere al lieto fine».
Lei penserà sicuramente che ogni suo film sia diverso dagli altri, ma chi li ha visti tutti può avere l’impressione di aver assistito a una specie di serial, con personaggi ricorrenti.
«E un po’ come con la cucina cinese. Ci saranno all’incirca 150 piatti, tutti diversi tra loro, ma pur sempre cinesi. Per i miei film vale lo stesso discorso: ci sono commedie, drammi, polizieschi, una commedia musicale, ma tutte queste storie sono state inventate e scritte da un unico cervello».
Sulla religione usa sempre parole molto dure.
«Sono ateo. Trovo che le religioni siano tutte patetiche e venali. Rispetto le credenze di ciascuno, ma l’obbligo di portare un cappello o la barba, o il divieto di mangiare questa o quell’altra cosa, è ridicolo».
In cosa si sente ebreo?
«Sono ebreo perché i miei genitori mi hanno detto: “Noi siamo ebrei, perciò anche tu sei ebreo”. Ma subito dopo hanno aggiunto: “Noi siamo democratici, perciò anche tu sarai democratico”».
Lei sfoggia lo stesso modello di Ray-Ban che aveva nel suo primo film e anche lo stesso tipo di vestiti. La moda non le interessa?
«Metto semplicemente roba che non mi fa grattare, tipo i pantaloni di velluto a coste».
Lei è nato nel 1935 come Elvis Presley. Eppure è riuscito a sfuggire il rock and roll: come ha fatto?
«E colpa mia. Ho ignorato tutte le forme della musica pop. Amo l’opera, la musica classica, qualunque tipo di jazz. Il mio preferito è il jazz di New Orleans. Mi appassiona molto anche il grande repertorio della canzone americana: Cole Porter, George Gershwin e anche Rodgers e Hammerstein. Il rock, però, non mi ha mai emozionato, considerando tutto quello che c’era da scoprire nel jazz».
Quando, negli Anni 60, faceva i suoi numeri comici nei locali tutti facevano uso di droghe. Lei se ne è sempre tenuto alla larga. Non ne è mai stato curioso neanche un po’?
«Non ho la minima curiosità per questo genere di cose. Del resto, neanche per altre cose. Non ho mai passato il confine per andare in Messico. La mia compagna vorrebbe andare in Corea, il suo Paese d’origine: io no. Ho vissuto solo a New York, sono stato in Canada per la prima volta a 70 anni perché costretto. Non ho mai visto il Grand Canyon ne le cascate del Niagara. Figurarsi la droga».