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 2014  gennaio 09 Giovedì calendario

LA BOTTEGHINA NAPOLETANA CHE RESE MITICO UN RETTANGOLO PIEGATO DI SETA


Come sarebbe probabilmente imbevibile un Chianti prodotto oggi seguendo meticolosamente il “disciplinare” ottocentesco del barone Ricasoli, così la più elegante cravatta uscita dalle abilissime mani delle lavoranti di Marinella, al tempo in cui il negozio aprì, sarebbe oggi praticamente importabile. Troppo corta e troppo larga. Non potrebbe essere altrimenti: allora, lì, usava il metodo più ricercato, quello delle “sette pieghe”. In pratica ogni cravatta era ricavata da un intero square: il rettangolo di seta andava piegato per sette volte verso l’interno, non esisteva ancora il corpo interno, la fodera (in termini tecnici, la “teletta”). Ne derivava una mirabile consistenza; però, per esclusive ragioni geometriche, la cravatta arrivava solo a metà del torace. Il problema era risolto daIl’uso, al tempo quasi imprescindibile, del panciotto. Oggi, l’effetto sarebbe discutibile.
Square, va spiegato, è il nome inglese della pezza di stoffa ancora usata per queste lavorazioni. Misura un metro per centotrenta centimetri: le cravatte che Marinella ne ricava attualmente sono quattro, due destinate alla produzione su misura e due alla lavorazione standard (naturalmente, se il cliente è un giocatore di basket il ricavato si riduce un bel po’). Ora, Marinella non ha bisogno di presentazioni, è il sinonimo della cravatta italiana (e non solo). Una botteghina napoletana conosciuta in tutto il mondo, che sta per festeggiare i cent’anni di vita e che è rimasta minuscola – venti metri quadri – come quando nacque.
Era il giugno 1914, il negozio aprì sulla Riviera di Chiaia, in piazza Vittoria, davanti alla Villa Comunale e al galoppatoio. La Napoli che conta passava, e passa ancora, ogni giorno di lì. Fu subito un successo, anche mondano. Matilde Serao ne parlò nella rubrica che teneva sul Mattino, sotto il titolo “Api, Mosconi e Vespe”: «… Il magazzino del Marinella è quanto di più autenticamente inglese si possa immaginare, dalle vetrine dell’ingresso coi cristalli ricurvi, alla mostra di marmo raro, dalle magnifiche lettere in bronzo, in perfetta sintonia con la signorilità dell’ambiente. Inutile aggiungere che nel magazzino di piazza Vittoria i nostri viveurs troveranno articoli inglesi esclusivamente modellati per la casa».

All’inizio si puntò sulla camicia. British, in effetti, era la parola d’ordine che aveva guidato Eugenio Marinella appena aveva saputo della possibilità di acquistare quello spazio: la sala da tè del Caffettuccio, un locale chic, che ora metteva in vendita questa dépendance separata. Lui che era già nel settore, socio in due negozi di abbigliamento, intuì che qui avrebbe potuto seguire esclusivamente il suo gusto. Dopo la bottega, venne l’acquisto di due atelier e poi, immediatamente, Don Eugenio partì per il primo viaggio oltremanica. Destinazione Londra, a comprare stoffe ma anche profumi, cappelli, cinture, bretelle e bastoni da passeggio, insomma il corredo perfetto dell’anglofilo partenopeo.
Gli atelier sono due perché uno, grande, serve per le camicie; alle cravatte è destinato il più piccolo. Le prime sono all’inizio il cuore commerciale della ditta. L’uomo elegante, allora, ne cambiava anche tre o quattro al giorno. Per istruire le sue 45 operaie, Eugenio reclutò a Parigi una tagliatrice provetta: ognuna delle lavoranti aveva la sua specializzazione, fra taglio, montaggio, colletti, maniche e asole.
In piazza Vittoria è un viavai continuo di signori e giovanotti della buona società. Gli affari fioriscono. Devono passare anni perché Marinella si trovi davanti a qualche problema. Succede quando il fascismo entra in conflitto con la “perfida Albione”, la scritta shirt-maker and outfitter sulla facciata è troppo britannica: Eugenio deve toglierla. Verrà rimessa molti anni dopo. Intanto, l’arrivo degli Alleati, al momento della liberazione, dà ulteriore impulso a rendere il marchio cosmopolita.
I tempi duri torneranno qualche decennio dopo, con la crisi economica dei primi Settanta. In un certo senso non mancano le conseguenze positive: sull’onda di queste difficoltà, si decide di mettere in vendita le prime cravatte prêt-à-porter (il prezzo viene fissato allora a 12.000 lire).
Nel 1968, il capostipite muore, a 88 anni. La mano passa al figlio Luigi, don Gino. Ormai, la camicia ha perso il ruolo di “regina del guardaroba”. Lui, accorto, l’abbandona progressivamente, dedicandosi soprattutto alle cravatte. Alla ricerca delle migliori stoffe per queste ultime, continua a coltivare la tradizione delle spedizioni oltremanica.
Da Londra si spinge nel Kent, a cercare gli square più belli: a Crayford, fino a dieci anni fa, oggi Maurizio, l’erede, punta a Macclesfield, poco lontano da Manchester, dove c’è una grande concentrazione di seterie.
Il negozio, oggi, è amorevolmente conservato come cento anni fa: la porta incorniciata di marmo verde di Calabria, le cornici in legno delle vetrine, il lampadario in stile liberty e lo stemma smaltato con la scritta Fornitore Ufficiale della Real Casa di Borbone-Due Sicilie.

Luogo di relazioni. Il registro dei clienti è imponente, blasonatissimo e pignolo nell’elencare le loro preferenze. Ci si può limitare ai presidenti della Repubblica italiana e scorrerlo nelle pagine più antiche: Enrico De Nicola era di casa e voleva le classiche blu, Luigi Einaudi amava quelle più chiare, anche Giuseppe Saragat le voleva luminose, Giovanni Gronchi stava attento alla morbidezza, Antonio Segni si teneva sull’austero, Giovanni Leone, altro napoletano, fu il primo a sdoganare le fantasie, e Sandro Pertini era più fantasioso (ma, forse, è un modo educato per suggerire che le sue mise ci azzeccavano poco con l’eleganza codificata), Francesco Cossiga, addirittura, prese l’abitudine di regalare cravatte Marinella agli altri capi di Stato durante le visite ufficiali.
Se la produzione di Marinella ha sempre avuto un carattere molto british, le strategie di marketing – anche quelle non studiate, spontanee, si potrebbe dire caratteriali – hanno sempre avuto, al contrario, un tratto molto partenopeo, con la bottega, boutique o salon che diventa imperdibile luogo di relazioni umane e sociali.
Ci sono ormai consolidate abitudini: una volta al mese Maurizio e lo staff vanno a presentare in un qualche grande albergo lontano da Napoli le cravatte su misura per i clienti più fedeli.
E, ancora, di lunedì, a Napoli i negozi sono chiusi, tranne quello di Piazza Vittoria: tiene su la saracinesca e una fessura aperta nell’ingresso: è il giorno della conversazione, amici e compratori passano a fare due chiacchiere, qualche considerazione sulla città, confidenze mondane o sentimentali ma anche ragionamenti sui massimi e sui minimi sistemi.
A Marinella, poi, il merito di smentita vivente della leggenda che vuole i napoletani pigri e dormiglioni. Piazzatevi davanti al negozio fra le sette e le otto di mattina e vedrete un’animazione che nemmeno sulla Quinta Strada nell’ora di punta.
Visite veloci, mordi e fuggi, oppure lunghe soste segnate dall’incertezza fra questa o quella fantasia: comunque, un continuo andirivieni di gente.
Ha scritto Domenico Rea: «Una cravatta, un fazzoletto, un berretto, un pullover di Marinella, anche consumati, si conservano come cimeli».


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