Marco Merola, Sette 9/1/2014, 9 gennaio 2014
MEMORIE DAL SOTTOSUOLO DI ROMA
Roma è come un enorme iceberg di cui si vede solo la cima emergere dall’acqua. Nelle sue viscere esiste un mondo parallelo fatto di templi arcaici e sepolcri, cloache monumentali e immensi depositi di opere d’arte. Luoghi scarsamente visitati o interdetti al pubblico, spesso chiusi da anni, talvolta dimenticati. L’emozionante viaggio a ritroso nei secoli inizia entrando in una botola, scendendo una scalinata, magari esplorando un retrobottega. A noi le chiavi della “città di sotto” le ha date la Soprintendenza di Roma Capitale guidata, nei giorni in cui è stato realizzato il servizio, dal vulcanico Umberto Broccoli. L’obiettivo era condiviso: aprire al mondo, per la prima volta, le porte di Roma segreta. Ad accompagnarci un pool di archeologhe e studiose appassionate a cui va la nostra gratitudine.
Preziosi scantinati. Siamo partiti dalla Domus di San Paolo alla Regola. Un posto molto particolare che si trova tra il Tevere e Largo di Torre Argentina. Sembra uno scantinato condominiale e, di fatto, fu qualcosa di molto simile. Alla fine del I secolo d.C., subito dopo il grande incendio dell’anno 80 che ridusse in cenere molte zone della città, vennero allestiti qui degli horrea, magazzini per stoccare derrate alimentari. Oggi è tutto murato ma un tempo gli ambienti erano affacciati sul Tevere, da dove arrivavano le merci. «Questo edificio mostra perfettamente come la vita e le attività della città siano cambiate nel corso del tempo», spiega la dottoressa Stefania Pergola, mentre ci guida nel tour. «Dalla fase più antica si passa al V secolo d.C. quando c’era una fullonica (stabilimento per la colorazione dei tessuti, ndr), in seguito sarebbe diventato un deposito per le conchiglie. Solo nel 500 fu costruito il sovrastante Palazzo Specchi che oggi si vede dalla strada». «Tutto il centro di Roma è così», ci dicono i funzionari della Soprintendenza. Nulla è stato abbandonato ma costantemente riutilizzato.
Ci spostiamo, non di molto. L’appuntamento successivo è alla Bocca della Verità dove un’ignara folla di turisti fa la fila per infilare la mano nella famosa fessura. Proprio lì di fianco c’è una stradina che conduce a un palazzo affascinante nella sua aura di decadenza. Al pian terreno ospita il laboratorio di scenografia del Teatro dell’opera ma sotto... Si scende per ben 14 metri. Fino a sbucare in un’area sacra perfettamente conservata. Sembra costruita ad arte ma non siamo a Cinecittà. È un mitreo, il luogo in cui veniva professato un culto iniziatico orientale dedicato a Mitra. Il rito clou, per gli adepti, era l’uccisione del toro, come mostra un bassorilievo in cui il dio trascina con sé il malcapitato animale. Lo accompagnano i “dadofori” Cautes e Cautopates, uno con la fiaccola rivolta verso l’alto e l’altro verso il basso. Simboleggiano il giorno e la notte.
Sangue e misteri. C’è un’atmosfera impastata di misticismo e violenza, si vedono ancora le canalette di scolo per far defluire il sangue dei sacrifici. Iscrizioni, statue, tutto è rimasto (quasi) com’era nel III secolo d.C., fino a quando «il codice teodosiano (testo giuridico promulgato da Teodosio II nel 438 d.C., ndr) vietò il culto di Mitra e questo luogo andò interrandosi», spiega Elisabetta Carnabuci, «e se ne perse la memoria storica e documentale». Il sito fu scoperto nel 1931 e oggi sarebbe anche aperto al pubblico, su prenotazione, ma sono davvero pochi quelli che chiedono agli uffici di Roma Capitale di visitarlo.
Riemergiamo dalle nebbie del passato per esplorare, poco lontano, una strana struttura che si trova di fianco alla celebre scalinata dell’Ara Coeli, quella che sale al Campidoglio. I romani neanche la considerano, i turisti la degnano di un fugace sguardo prima di scappare all’Altare della Patria.
Condominio ante litteram. «Era un caseggiato popolare di sei piani, l’unico di questo genere a Roma», dice Elisabetta Bianchi. Ai piani bassi c’erano dei negozietti per il commercio al dettaglio, più su piccoli appartamenti che venivano dati in affitto. Gli ambienti sono angusti e senza luce. A Roma la plebe viveva così, ma almeno all’epoca poteva permettersi un’abitazione aggrappata alla roccia del Campidoglio. Il resto dell’edificio si trova sotto la scalinata dell’Ara Coeli, e così il nostro sogno di visitarlo integralmente tutto si infrange contro un muro.
Ma Roma non è certo avara di meraviglie, se si sa dove cercarle. Sul Colle Oppio, di fronte al Colosseo, ci attende già la responsabile della Soprintendenza Rita Volpe. «Vi farò vedere qualcosa che vi lascerà a bocca aperta» annuncia.
Il salotto sotto le Terme. Gli addetti ai lavori lo chiamano freddamente “criptoportico” perché si trova in una galleria. Sono i resti del quartiere dove viveva l’upper class romana all’epoca della costruzione del Colosseo. Chi si affacciò da questo colle, dunque, vide la spianata sottostante ancora sgombra dalla mole dell’Anfiteatro Flavio. Sulle pareti tracce inequivocabili della passata grandeur. Sedici metri di mosaico in cui si riconoscono le figure di muse e filosofi. «C’era anche una fontana con un ninfeo», continua Volpe. «Forse era un salone ma dovremmo scendere più in profondità per poterne avere la certezza».
La scoperta di Colle Oppio ha consentito agli archeologi di disegnare la pianta urbana di una Roma sconosciuta, quella dei Flavii appunto. Prima che arrivasse l’Imperatore Traiano, nel II secolo d.C., e decidesse di costruire un impianto termale proprio sopra le case più antiche. «Come Pompei è stata seppellita dalla cenere qui tutto è stato seppellito dalle Terme», scherza la studiosa. Al resto ci ha pensato il patto di stabilità. Da maggio 2011 niente più fondi e niente più scavi, tutto fermo. Un vero peccato. Su un muro campeggia l’affresco di un’antica “città ideale”, ribattezzato così per la sua incredibile somiglianza con il dipinto rinascimentale conservato nella Galleria Nazionale delle Marche. È una foto della Roma imperiale unica nel suo genere, meriterebbe ben altra valorizzazione. Ma le istituzioni, quando vogliono, sanno essere inflessibili.
Chiare, fresche, dolci acque. Per un luogo che vivacchia grazie a estemporanei momenti di gloria mediatica ce n’è un altro, sempre sul Colle Oppio, che langue da anni in balia degli elementi. Dimenticato da tutti. È noto come Cisterna delle Sette sale, enorme collettore dove confluiva l’acqua proveniente da uno degli acquedotti “nord” dell’Urbe prima di essere smistata attraverso delle canalette alle vicine Terme di Traiano. Se si vuol avere contezza della grandiosità delle opere idrauliche romane bisogna venire qui: in 2.500 metri quadrati erano contenuti fino a 4 milioni di metri cubi di acqua. Le sale di decantazione servivano a dare il tempo al liquido di far depositare fanghi e impurità sul fondo.
Dal 500 in poi la cisterna fu inserita in tutte le piante della città perché tutti, in Italia e all’estero, la conoscevano. Basta guardarsi intorno per notare i numerosi graffiti di architetti e artisti stranieri, proto-vedutisti, che in quei secoli affollavano la Capitale in cerca di ispirazione. «W Lorraine», recita una scritta seicentesca fatta col carboncino dalla mano di un adepto della famosa scuola lorenese. Chi avrebbe mai detto che un giorno l’edificio sarebbe stato lasciato solo al suo destino.
Oggi cade letteralmente a pezzi e, nonostante ciò, è chiuso da grate anti-sfondamento per impedire che qualcuno vada a viverci dentro. «Un’esperienza che abbiamo già vissuto nel 1998 al tempo delle manifestazioni pro-Ocalan (il leader politico del Pkk che fu portato in Italia prima di essere estradato in Turchia, ndr)», chiosa Volpe. «Qui si era installato un vero e proprio villaggio di curdi. Portarono addirittura mobili e materassi».
Al fuoco, al fuoco! Dalle alture alla pianura per rituffarsi nella Roma del populus. In una traversa di Viale di Trastevere c’è un portoncino con su scritto “Excubitorium”. Si scendono delle scale fino ad arrivare a 8 metri sotto il manto stradale e si entra in una piccola caserma dei vigili del fuoco di età augustea. Nel I secolo d.C. in una città di 147mila edifici i vigili avevano un gran da fare. Il paradosso più grande è che oggi proprio la loro sede non guadagnerebbe l’agibilità. Il sito è rimasto all’aria aperta fino agli Anni 60, poi è stato coperto. Ma quella copertura oggi scricchiola. Allora ecco che l’odierno genio italico ha trovato la soluzione a costi zero.
«Abbiamo accettato la richiesta di una nota casa di moda che voleva girare qui lo spot per un profumo da donna», spiega Monica Ceci. «Oltre al pagamento dei diritti previsti dalla legge si è fatta carico della messa in sicurezza del luogo montando una rete metallica sotto il soffitto». Questo permetterà, a breve, l’apertura al pubblico, almeno parziale. Un punto a favore della “dottrina Broccoli” sulla messa a reddito dei beni culturali.
Chi ha visto l’Excubitorium addobbato dai designer dell’atelier con tappeti, lampadario di cristallo e candele ne è rimasto deliziato. «Ho proposto loro di lasciarmelo così!», scherza Ceci, «sarebbe stata un’attrazione turistica sui generis».
Patrimonio itinerante. La storiella del Duce che ordina lo sbancamento del colle della Velia per far posto a via dei Fori Imperiali (la strada che collega Piazza Venezia al Colosseo) la conoscono tutti. Quello che molti non sanno è dove siano finiti tutti i reperti archeologici recuperati durante i lavori. Dopo molto peregrinare, nel 1997 sono approdati “momentaneamente” al Museo della Civiltà Romana dell’Eur.
«Erano venticinque casse che non venivano aperte dal 1929», dice Carla Martini. «Negli ultimi due anni abbiamo catalogato tutto e restaurato il possibile». Siamo i primi a vedere il frutto di tanto lavoro. È esposto su dei lunghi banchi in un padiglione dedicato del museo. Gli oggetti, bilancine da commerciante, lucerne, statuine, strumenti musicali, gioielli, ceramiche, sono incastonati in blocchetti di polistirolo “estruso” che li proteggono dagli urti. Un ben di dio che farebbe gola a qualunque collezionista. «Inseguo le casse dal ’79, ora che so cosa contenevano mi piacerebbe che i reperti trovassero una degna collocazione». Difficile che ciò accada in tempi brevi visti i costi di allestimento di un piccolo museo o antiquarium, ma è lecito sognare.
La storia sotto i piedi. Via dell’Impero (poi via dei Fori Imperiali) tagliò a metà una delle aree archeologiche più ricche e belle del mondo che oggi il sindaco di Roma, Ignazio Marino, sta pensando di riportare all’antico splendore. Magari, dismettendo la strada. Sotto di essa, dalla parte dei Mercati di Traiano, ci sono dei depositi. Contengono 5.000 pezzi di marmo sottratti ai palazzinari di ogni epoca che venivano ai Fori per “fare la spesa” di decorazioni e fregi. La responsabile, Beatrice Pinna Caboni, ogni volta che entra nei depositi si mette le mani nei capelli: «Questi pezzi sono migrati da un posto all’altro dei Fori perché venivano presi, usati e poi ributtati, quindi non sappiamo da dove provengano. È come avere di fronte un puzzle di cui non si riesce a riconoscere le tessere».
Ognuno di essi, però, riserva qualche sorpresa. Un fregio raffigurante scene di viticoltura, per esempio, ha dato agli archeologi la conferma che un tempo nei Fori c’erano dei meravigliosi vigneti.
Autostrade sotterranee. L’avventura non poteva che concludersi nella fogna dei Romani, la Cloaca Maxima. Grazie al supporto tecnico degli speleologi di “Roma Sotterranea” ci siamo calati per 7 metri attraverso una botola che si trova nell’area del Foro di Nerva. L’immagine clou dell’underworld capitolino è un fiume d’acqua putrida che corre in una galleria monumentale (la cloaca, 1,5 chilometri di lunghezza, è tutt’oggi perfettamente funzionante). Conoscere quel condotto è stato di vitale importanza nel 2011 quando caddero delle piogge torrenziali che fecero esondare anche il Tevere. «I ristoranti di via Cavour (la strada che dalla stazione Termini va giù verso via dei Fori Imperiali, ndr) ebbero le cantine allagate e nessuno sapeva il perché», ricorda Elisabetta Bianchi. «Fummo noi della Soprintendenza a fornire all’Acea (la municipalizzata che gestisce l’acqua di Roma, ndr) la documentazione ottocentesca sul tracciato della Cloaca. Così scoprirono che si erano ostruiti alcuni filtri anti-intrusione messi negli Anni 70 per prevenire azioni terroristiche».
Mentre la città visibile di tanto in tanto si inceppa quella invisibile continua da duemila anni a funzionare come un meccanismo ben oliato, a produrre effetti sulla nostra vita e sulla nostra conoscenza. Forse è l’eredità più preziosa di tutte.
(1 - continua)