Antonio D’Orrico, Sette 9/1/2014, 9 gennaio 2014
VITA SPERICOLATA DI RICKY ALBERTOSI
Brera lo chiamava Puliciclone, un soprannome che diceva tutto (come fanno i soprannomi quando sono azzeccati). I compagni di squadra lo chiamavano, invece, Pupi e Gianni Brera storceva il naso perché, secondo lui, Pupi era un soprannome da fighetti. Paolino Pulici, uno dei gemelli del gol del Torino che rivinse lo scudetto nel 1976, il primo dopo Superga, effettivamente un fighetto non era. Era un gigante che correva i cento metri in dieci secondi e cinque decimi e segnava centinaia di gol. Oggi Puliciclone allena una squadra di bambini, lontano dal grande giro, e ricorda i suoi tempi così: «Pensa che, dopo la partita giocata al Comunale, andavo a casa a piedi – abitavo lì vicino – in compagnia dei tifosi».
Il centravanti che ritorna a casa a piedi (senza correre via dallo stadio saltando su una Ferrari o su una Porsche Cayenne con i vetri oscurati) assieme ai supporter è l’immagine che sintetizza la filosofia di Alla ricerca del calcio perduto (edizioni Goalbook) un libro di Nicola Calzaretta che intervista i vecchi campioni degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta.Tra gli altri: Giancarlo Antognoni, Luciano Castellini, Bruno Conti, Gabriele Oriali, Massimo Palanca... È una serie di interviste pubblicata sul Guerin Sportivo nella rubrica «Amarcord» e sono in perfetta sintonia con i Mi ricordo che sto sollecitando ai lettori sull’esempio di Georges Perec, maestro del genere.
il maglione giallo. Però non vi aspettate un libro buonista, dove la nostalgia falsa la realtà. Dentro ci sono racconti veri. E il racconto più vero di tutti credo che sia quello di Ricky Albertosi. Albertosi è stato portiere della Nazionale, della Fiorentina, del Cagliari e del Milan. Portava dei maglioni gialli che servivano (dice lui) ad abbagliare e confondere gli attaccanti. Non ci credo molto, penso che Albertosi lo facesse per vanità, quei supermaglioni gli stavano molto bene e non erano tristi e impiegatizi come le divise nere tipiche dei numeri uno di allora. Albertosi fece una gran carriera (era il portiere di Italia-Germania 4 a 3, il che significa far parte della storia, ma ancora di più significa far parte della leggenda: la differenza è che la storia, prima o poi, finisce, forse è già finita secondo alcuni, mentre la leggenda non finirà mai). Albertosi racconta a Calzaretta la sua rivalità con Dino Zoff, i due non si amavano. Ma oggi Zoff dice, sempre nel libro: «Io, comunque sia, Albertosi l’apprezzavo perché lui era il portiere autentico, esuberante, spaccone». Che è un ritratto perfetto di quello che è stato il grande Ricky.
alluce verso. Sentitelo quando racconta del suo amico («fratello» lo chiama) Gigi Riva, compagno nel Cagliari dello scudetto: «In allenamento non sono stato mai in porta quando calciava Gigi. L’unica volta che è successo, mi ha fratturato l’alluce». Lo squassante tiro sinistro di Rombo di Tuono. Ora che Riva è prigioniero della depressione (come ha raccontato al Corriere) forse ripensare a Ricky, lo spaccone, gli farebbe bene. Albertosi fu condannato e andò in carcere per questioni di partite vendute. Lui che amava «il pallone, ma anche le donne, i cavalli, il fumo, le carte». È ovvio che sbagliò. Ma la sua storia resta bellissima.