Giuseppe Marcenaro, Il Venerdì 9/1/2014, 9 gennaio 2014
DI QUELLA PIRA L’ORRENDO FOCO CHE BRUCIÒ SHELLEY
Quando, sull’arenile fuori Viareggio, assistette al consumarsi della pira, Maria Guidi detta Giuraddua aveva ventitré anni. Era il 16 agosto 1822. Settant’anni dopo, ricordava ancora il crepitio delle fiamme azzurro violacee. E poi i militari che facevano allontanare i curiosi, ché non si avvicinassero troppo. I ragazzini attoniti all’insolito spettacolo. «C’erano parecchie signore riccamente vestite. Come fossero a teatro, si erano messe comode all’ombra, sotto un capanno di foglie». Curiosa fotografia della memoria del drammatico e insolito evento consumatosi sulla riva del mare versiliese. La pira che inceneriva il corpo di Percy Bysshe Shelley. Esito di un intrico d’avvenimenti drammatici sui quali indagò a fine Ottocento Guido Biagi, un letterato, ormai inabissato, dedicatosi, attorno al 1890, a rintracciare le comparse che avevano assistito all’incenerimento di Shelley. Biagi, rendendo conto delle sue interviste, le radunò in un libretto: Gli ultimi giorni di P.B. Shelley. Oggi ristampato (La Vita Felice edizioni) con testi di M.G.Malfatti Angeloni e Giulio Cesare Maggi. E non soltanto la novantatreenne Giaruddua, aveva rintracciato Biagi. Anche ritrovò Giacomo Bandoni, nel 1822 bambino, figlio della guardia sanitaria, obbligatoriamente presente alla cremazione, che con papà aveva presenziato al mistico e spasmodico spettacolo. Ma tanto l’una, quanto l’altro, testimoni oculari manco sapevano chi fosse il combusto. Due vecchi viareggini vagheggiavano di un inglese. E fu molto. Vedette e comprimari della vicenda erano morti da tempo.
Percy Bysshe Shelley, la moglie Mary, gli amici Williams e Trelawny, nell’aprile del 1822, si erano stabiliti a villa Magni a San Terenzo, di fronte a Porto Venere. Con loro era Claire Clermont, sorellastra di Mary, persistente compagna di viaggi e di vita della coppia. Erano reduci da un errabondo tour attraverso ab baglianti luoghi italiani. Shelley compose allora i suoi alti poemi. Prometeo nelle terme di Caracalla. I Cenci sul tetto della villa Valsovano a Livorno. Poesie sgorgarono alle Cascine, nella pineta della Versilia, sui prati di San Giuliano nei dintorni di Pisa... Il Trionfo della vita, l’ultimo poema, barcheggiando nel golfo della Spezia. La medesima barca per la quale aveva scelto lo shakespeariano nome di Arìel, e che gli sarebbe stata fatale. Shelley era giovane, ricco, pieno di entusiasmi. Di una bellezza romanticamente ambigua. Una sorte avversa sembrava però inseguirlo. Nella compagnia di villa Magni il beau desordre era carico di presagi.
Soprannominato mad Shelley, nel 1811 era stato espulso da Eton. Aveva fatto circola re negli austeri ambienti il suo The Necessity of Atheism. Sposò segretamente la sedicenne Harriet Westbrook, figlia di un ex caffettiere. Comincia la vita errabonda. Gli sposi cambiano sovente di domicilio. Approdano a Dublino. Qui Shelley si dedica a una serrata propaganda rivoluzionaria. Sperava nella sua voce tale a scintilla che infiammasse l’Irlanda. Frequentava allora una famiglia di teste calde. Il signor William Godwin un agitatore. La moglie, Mary Wollstonecraft, scrittrice di testi sociali. Una ansiosa figlia, Mary. Con lei Shelley fuggì. Piantando la moglie Harriet e i due figli. Le scrisse da Troyes invitandola a raggiungerli, non dubitando minimamente accogliesse l’inusitata proposta. «Da nessuno puoi aspettar questo se non da me, tutti gli altri sono insensibili o egoisti...». Harriet non doveva pensarla proprio co sì. Qualche tempo dopo fu ripescata nella Serpentina di Hyde Park. Annegata. Anche la sorella di Mary, Fanny Imlay, prima figlia dei Godwin, morì suicida. Il suo corpo, non riconosciuto dai genitori per «vergogna», finirà in una fossa comune. I Godwin spargeranno allora una voce sulla partenza della figlia, verso destinazione ignota. Poi che era morta suicida per un repentino innamoramento di Shelley, gelosa di Mary.
Mentre in patria si consumavano le tragedie, Percy e Mary trascorrevano moltitudini di lune di miele in un cottage a Montalègre, sul lago di Ginevra. Ricevevano le visite di amici, «viandanti dalle soffuse disperazioni». Lord Byron abitava in una villa sulla collina, poco lontano. Stava scrivendo il terzo canto del Childe Harold. «Ma fu un’estate piovosa e poco clemente; eravamo costretti in casa per giornate intere». Da villa Diodati, la dimora Byron, la vista sul lago era plumbea. Spettrale il paesaggio, ovattato di nebbie. Quattro inglesi annoiati escogitarono un gioco. Inventare ognuno un racconto dell’orrore. Shelley scrisse The Assassins. Byron una storia alla quale da tempo pensava, The Burial, mai compiuta. Il dottor John William Polidori si dilettò con The Vampyre, inserendovi elementi di Glenarvon, un romanzo di Ca roline Lamb in cui Byron era metaforizzato nel personaggio centrale: as sassino delle sue amanti, rapito dal diavolo e trasformato in spettro delle vittime. Mary, coinvolta nell’orrorifico gioco, iniziò Frankenstein, tra le quattro l’unica opera condotta a compimento. L’annoiato gioco di villa Diodati risvegliò glaciali premonizioni.
Quando Mary Godwin e Percy Bysshe Shelley, dopo quella angosciante stagione svizzera, tornarono in Inghilterra, viaggiavano con il loro bambino William, di pochi mesi. E con la sorellastra di Mary, Claire Clermont, incinta di Byron e subito abbandonata. Nacque la piccola Allegra che Byron, riconosciuta come sua e trascinata per un po’ lungo i suoi tour, aveva affidato a un convento a Parma, dove, in breve, la piccola sarebbe morta.
Percy e Mary, tornarono in Italia. Da Roma fuggirono affranti, inseguiti dall’ala sinistra di una tragica sorte. Morto in pochi giorni, lasciarono il figlioletto al cimitero di Testaccio. Ripararono nel golfo di Lerici, a San Terenzo, a villa Magni, con l’animo ingombro di sovrane angosce e sinistre premo- nizioni. Erano arrivati, in truppa con altri inglesi, quali naufraghi, alla ricerca di una riva. La creatura evocata da Mary con il Frankenstein, ossessivamente presente. L’amico Edward Trelawny descrive la casa: «consisteva in una terrazza a pianterreno senza pa vimento, usata per armarvi le barche e per gli attrezzi da pesca, e di un unico piano sopra di esso, diviso in un’entrata o sala e quattro piccole stanze... C’era un caminetto per cucinare e una veranda che affacciandosi sul mare si spingeva quasi sopra di esso».
Shelley era entusiasta di San Terenzo: «Io dimoro in questa baia leggendo drammi spagnoli, vogando e ascoltante la più divina di tutte le musiche». La musica della natura. Anche quella che Jane Williams traeva da una chitarra che Shelley le aveva donato. Insieme, prendevano spesso il largo. Percy governava la barca mentre Jane suonava. Mary scrutava dalla battigia.
Il primo luglio 1822 Shelley salpò da San Terenzo con l’Ariel, alla volta di Livorno. Con lui Edward Williams e un marinaio. Shelley aveva fatto una corsa a Pisa. Per rivedere Byron con l’amante, la contessa Guiccioli. Ripreso il mare della Città dei mori l’8 luglio, l’Ariel, investito da un fortunale, non tornerà mai alla bianca casa sulla riva di San Terenzo. Il suo corpo fu rinvenuto dieci giorni dopo sulla spiaggia di Viareggio. Quelli di Williams e del marinaio, il mare li rese a Migliarina.
Fu presa la decisione di cremare il corpo di Shelley nello stesso luogo ove il mare lo aveva spiaggiato. Era una serena giornata italiana. All’orizzonte si stagliavano i contorni delle isole della Gorgona, di Capraia e dell’Elba. Dietro alla foresta di pini striminziti costeggianti la spiaggia si levavano le creste delle Apuane. Il mar e calmissimo. Azzurro. Quel panorama avrebbe deliziato Shelley. Il cadavere fu deposto sulla catasta. All’insolito spettacolo si erano radunati curiosi, tra cui la giovinetta Maria Guidi detta Giuraddua e il bambino Giacomo Bandoni: i remoti testimoni di Guido Biagi. Alle 4 del pomeriggio del 16 agosto 1822 venne appiccato il fuoco. Trelawny e Hunt gettarono sulla pira incenso e sale, sul corpo di Shelley olio e vino, che diedero alle fiamme un fulgore vibrante. By ron spiava da una carrozza, poco lontana. Non aveva avuto la forza di scendere. Il bagliore del fuoco contro il sole era vio lento e l’aria tremava… Il cuore di Shelley, ingorgato di sangue, non bruciò. Hunt lo raccolse e lo pose in un cofanetto. Lo avrebbe consegnato a Mary Shelley.
Al tramonto, mentre vagavano senza meta nella fo resta di pini, Byron e Hunt, desolati, sprofondarono in una isterica ilarità, quella che a volte segue a un dramma doloroso e insopportabile. Bevevano vino forte. Cantavano e gridarono. Ebbri. Come posseduti.