Roberto Livi, il manifesto 10/1/2014, 10 gennaio 2014
CUBA, LIBERO IL MERCATO DELL’AUTO. MA È UNA DELUSIONE
Fino a venerdì scorso a Cuba la vendita di automobili e altri mezzi di trasporto privato era regolata dallo Stato. I veicoli nuovi potevano essere venduti solo a persone autorizzate (ad artisti famosi o sportivi d’eccellenza o per motivi di lavoro), lo stesso valeva per le auto dismesse dalle agenzie statali, di rent a car. Di conseguenza la gran parte della popolazione è stata esclusa dal possesso e dall’uso di veicoli privati, si è creato un mercato dell’usato dai prezzi folli ed è stato incentivato il riciclaggio di veicoli esotici dal gusto retro, ma pericolosi perché obsoleti e altamente inquinanti.
Per questo, la vendita libera di veicoli a motore — nuovi e usati — iniziata il 3 gennaio, in base a un nuovo decreto legge deciso lo scorso dicembre, è stata considerata una novità storica. Si tratta di una misura richiesta a gran voce da una popolazione, come dicevamo, in buona parte esclusa dall’uso di mezzi privati. E seguita da una cocente delusione. Il governo infatti ha scelto senza mezzi termini la via impositiva, sia come freno all’acquisto di nuovi veicoli, sia per creare nuove entrate per il fisco, mettendo in secondo piano la possibilità di migliorare la vita di una parte dei cittadini oltre che facilitare lo sviluppo di numerose attività di trasporto private o cooperative, sussidiarie del trasporto pubblico, assai deficitario.
I prezzi praticati sia per veicoli nuovi, sia per quelli usati messi a disposizione dallo Stato hanno causato una vera e propria indignazione. In un’agenzia de L’Avana una Peugeot 508 nuova era posta in vendita a 262.000 dollari (il dollaro viene equiparato al peso convertibile, Cuc, una della due monete in circolazione nell’isola), una Kia Rio a 42.000 Cuc, con ricarichi da quattro a sei volte i prezzi praticati nel mercato europeo. In un’altra agenzia, nel quartiere bene di Miramar, dove si vendono auto usate — dismesse dal settore turistico — i prezzi erano altrettanto stellari. Una Renault Clio del 2005 era messa in vendita a 25.000 dollari. «Incredibile, si tratta di pura fantascienza», «Sfruttatori», «È una mancanza di rispetto nei confronti della popolazione», i commenti che si potevano raccogliere tra la piccola folla raccolta davanti alla lista dei prezzi appesa di fronte all’agenzia di Miramar. Commenti ampiamente riportati da tutte le agenzie di stampa internazionali presenti nella capitale cubana, che hanno dedicato ampi servizi all’inzio della venta liberada delle macchine. L’indignazione della gente è comprensibile, visto che lo stipendio medio di un lavoratore cubano non arriva ai 20 euro al mese. E con tale disponibilità, l’acquisto di un veicolo resta un sogno impossibile. Anche perché il governo non ha, fino a oggi, fatto cenno alla possibilità di crediti per l’acquisto di auto.
Il “nuovo” mercato dell’automobile nasce così mettendo in mostra la forbice sociale che esiste da tempo a Cuba e che ora il potere centrale non nasconde più. Ma si propone di affrontare, appunto, con un nuovo sistema impositivo. I prezzi e i ricarichi vengono giustificati sia perché, per quanto riguarda l’usato, sono allineati con il mercato in atto fra privati (distorto dal fatto che da decenni quasi non entrano auto nuove), sia dalla creazione di un Fondo di finanziamento del trasporto pubblico, che sarà alimentato dalla tassa sul lusso applicata alle auto. In sostanza, secondo il governo, chi a Cuba ha i soldi per comprarsi una Peugeot 508, può pagare un’imposta esorbitante allo Stato, il quale poi si incaricherà di aumentare gli autobus e riparare le strade, in alcuni quartieri della capitale ridotte a colabrodo, e di finanziare la vendita a prezzo controllato di biciclette, come misura di salvaguardia dell’ambiente. In attesa che una marca cinese apra una fabbrica di montaggio di sue auto nell’isola, in modo da poter abbassare i prezzi delle nuove vetture. Solo che, per ora, tale esorbitante quota impositiva viene applicata non solo ai cosiddetti nuovi ricchi, ma anche a chi vorrebbe comprarsi un’utilitaria usata per poter migliorare le sue prospettive di lavoro o semplicemente per vivere meglio. Una tassa simile è già in vigore per alcuni articoli considerati di lusso, (alimentari, elettrodomestici dove il ricarico è superiore al 100%) con la conseguenza di generare meno entrate e maggiore forbice sociale.
Vi è dunque da dubitare che la possibilità di comprarsi domani una bicicletta compensi il malessere odierno di chi ha realizzato che mai potrà possedere un’auto o una moto e che vede transitare nelle strade dell’Avana macchine moderne di proprietà di personaggi arricchitisi in modo dubbio, o di burocrati statali. Malessere che si esprime in modo preoccupante nei giovani: la povertà delle condizioni materiali diventa sempre più sinonimo di povertà culturale, per non dire spirituale. Aumenta la quota di giovani che aspira solo a lasciare Cuba e in attesa del viaggio salvifico si auto condanna alla marginalità, rifiutando un lavoro che «no sirve» perché «no da de vivir» e ogni impegno politico o sociale, con i relativi corollari, subcultura, violenza, prostituzione, alcolismo e droga. Certo, si tratta di un fenomeno mondiale e Cuba rimane uno dei paesi con minor violenza nelle strade. Un fenomeno in accelerazione che solo fino a pochi anni fa era quasi sconosciuto nell’isola.
Una delle forme più evidenti è nel campo della musica popolare dove ormai detta una legge quasi dittatoriale — e suscita dure polemiche nei mass media governativi — l’onnipresente reguettón. «La povertà e la frustrazione hanno la loro musica», che è intrisa di machismo, sesso e slang, come afferma un noto musicologo governativo. Nel suo discorso del primo gennaio per commemorare i 55 anni della Revolución, Raúl Castro ha espresso la preoccupazione del governo e del partito comunista per tale situazione. «Siamo in presenza di una permanente campagna di sovversione» diretta soprattutto ai giovani, ha affermato il presidente, e «si percepiscono i tentativi di introdurre con sottigliezza piattaforme di pensiero neoliberale e capitalistico… che favoriscono l’individualismo, l’egoismo e il mercantilismo». Questa campagna ordita dagli Stati Uniti — ha specificato Raúl — ha lo scopo di minare la fiducia dei giovani nella direzione politica del paese e di indurre un diffuso pessimismo sulle prospettive future di Cuba.
Malumore della popolazione per le condizioni materiali di vita, malessere e marginalità crescente dei giovani che non credono negli slogan socialisti — con conseguente crisi della scuola — sono temi sollevati con abbondanza da oppositori e dissidenti. Solo che i blog, gli articoli e le dichiarazioni di Yoani Sánchez, Guillermo Fariñas, Berta Soler, Elizardo Sánchez — per citare i più noti — sono soprattutto rivolte all’estero, ma non hanno pressoché alcun eco all’interno dell’isola. L’anno scorso poi, in seguito alla nuova legge sull’emigrazione, tali oppositori hanno viaggiato molto all’estero, sono stati ricevuti con tutti gli onori negli Usa, in Spagna, Italia e altri paesi del globo. Ma, per citare la France presse, «a Cuba non vi è praticamente stata alcuna espressione di opposizione nel 2013, a differenza degli anni precedenti quando scioperi della fame, occupazione di chiese e altre proteste causarono un gran mal di testa al governo comunista».
Perché tanto attivismo all’estero non si traduce in una mobilitazione all’interno di Cuba? «Troppo facile responsabilizzare la repressione del governo» risponde Arturo Lopez-Levy professore all’Università di Denver, legato al movimento laico della Chiesa cattolica cubana. La repressione nell’anno passato non si è certo fermata, anche se si è espressa con forme nuove, ovvero con fermi di poche ore o di qualche giorno degli oppositori, o con la dispersione di manifestazioni, anche violente, di «rifiuto da parte della popolazione» — secondo i termini della stampa governativa — di attività di dissidenti e difensori dei diritti umani. «Ma vi sono altre ragioni che dovrebbero dar da pensare all’opposizione cubana», prosegue Lopez-Levy. Quest ultima infatti, ha espresso critiche e denunce senza però «presentare proposte credibili per i problemi del paese». In pratica, «sono stati più interessati al riconoscimento (e alle sue conseguenze materiali, ndr) esterno che interno», conclude il professore.