Riccardo Staglianò, Il Venerdì 10/1/2014, 10 gennaio 2014
I CINESI DI PRATO: I NOSTRI MORTI NON ERANO SCHIAVI
Prato. Ci sono quattordici persone vestite di nero sedute intorno a un tavolo. Se non fosse per le tazze di tè fumante tutto – la fòrmica bianca, la luce al neon, i volti terrei – farebbe pensare a una vera morgue e non al retro di un bar semivuoto del centro. Sono i familiari dei sette morti nel rogo del laboratorio Teresa Moda, appena arrivati dalla Cina. Una madre, i capelli neri che le spiovono sui lati della testa come uno spaventapasseri, è pietrificata e quasi non riesce a estrarre la mano dalla tasca per rispondere al saluto. Non sanno che, subito dopo la tragedia del primo dicembre, nei bar c’era chi ridacchiava («dovrebbero bruciare tutti») e sul web è spuntato un articolo (ci si arriva dalla pagina Facebook dell’associazione Prato libera e sicura, che fa capo all’assessore alla Sicurezza) dal titolo «Non sono poi molti sette morti in cambio di ciò che i cinesi avranno», scandalizzato dall’apertura di un ufficio postale dove si parlerà mandarino. Sanno invece che vita facevano i loro mariti, mogli e fratelli. «Mangiare l’amaro» è l’espressione che i cinesi della diaspora usano spesso. Vuol dire 18 ore al giorno, laoban, padroni, non teneri ma che pagavano salari fino a oltre 3.000 euro al mese per gli operai più veloci. Con vitto e alloggio, seppure nelle cellette dove sono morti cercando di riscaldarsi. Non è la vita che faremmo, è la vita che nessuno dovrebbe fare, ma è la vita che avevano scelto con la speranza di mettersi in proprio dopo cinque-sei anni. Da zero a imprenditore in un lustro non è un salto che si fa gratis. «Ma non chiamateci schiavi» esorta il fratello di una vittima, «nessuno dei nostri familiari era costretto a fare niente. Sono venuti, sui racconti di amici partiti prima, per guadagnare in media dieci volte di più rispetto ai 200 euro per otto ore nelle fabbriche in patria». Ecco, per rispetto dei morti e dei vivi, cominciamo a chiamare le cose con il loro nome.
Certo, queste persone in lutto oggi sono qui grazie alla generosità delle associazioni cinesi di Prato. E la comunità tende all’omertà. Ma quella dell’autosfruttamento – al netto di un operaio che avrebbe denunciato il suo datore perché non l’aveva soccorso dopo un incidente – è la versione, suffragata da prove, raccolta da centinaia di cinesi in giro per l’Italia. A Prato la sottoscrivono ormai quasi tutti. Fingono di ignorarla giusto alcuni politici locali che sanno che in tempi di crisi economica, da Weimar in poi, trovare capri espiatori rende. Non Giorgio Silli, l’elegantissimo assessore all’integrazione di Forza Italia, che pure i cinesi non li ha in simpatia. E aggiunge: «Che abbiano rovinato Prato è una leggenda. Noi facevamo tessuti, loro pronto moda: cose diverse. Restano però un problema che, da economico, è diventato sociale». Rimpiange la Prato degli anni 60, «quando erano tutti italiani e la domenica si andava a messa». Dice che i cinesi producono ricchezza per il loro Paese, da cui importano i tessuti, non per la città. Omette di ricordare che nei vari appartamenti che suo nonno affitta sono morti due pratesi anzianotti durante amplessi con prostitute asiatiche. Piccole e grandi ipocrisie della giunta. A partire dal sindaco Roberto Cenni che, mentre denunciava lo scippo di lavoro a opera degli orientali, era tra i primi a delocalizzare in Cina. Per proseguire con l’assessore alla sicurezza Aldo Milone, quello che si è fatto photoshoppare alla Clint Eastwood sui social network, ideatore dei raid con elicotteri e cani lupo, che di mattina denunciava l’invasione immobiliare cinese e di sera vendeva una villetta agli invasori. E per finire con la dipendente comunale che si faceva pagare 1.500 euro per certificati di residenza falsi.
Vizi privati e pubbliche virtù, all’italiana. Ma Prato, se non ci si accontenta delle caricature, è molto meglio di così. Prendete Claudio Bettazzi, il presidente della Cna, confederazione artigiani: «Da piccolo i miei mi tenevano in fabbrica nelle casse di filato. Io ho dato una mano da subito: sono tornato a scuola dopo. Mio padre oggi lo denuncerebbero! L’uscio e bottega, lavorare e dormire nello stesso luogo, l’abbiamo inventato noi». Quanto ai turni assurdi, c’è un bellissimo reportage Rai del ‘67 (youtube/ uvptCDocH54), che mi segnala il sociologo Fabio Bracci, in cui un tessitore si scusa di lavorare «solo » 10 ore e un altro parla di «16 ore, a volte anche di più». Possiamo indignarci, ma non meravigliarci. Di certo non lo fa Massimiliano Brezzo, Cgil settore tessile: «Negli anni 90 i pratesi che facevano la maglieria, per metà al nero, davano la merce ai cinesi la sera e la ritiravano la mattina. E di certo non stavano a chiedere la fattura». I pratesi si arricchivano, i cinesi pure. E ne arrivavano sempre di più. Nel 2001 la Cina entra nel Wto, saltano i limiti alle importazioni tessili. Migliaia di container di roba a basso costo invadono l’Europa, Prato va a fondo e i suoi cittadini più spaventati o sprovveduti guardano il dito (i cinesi locali) invece che la Luna (la Cina campionessa della globalizzazione). In città questi incomprensibili immigrati passano in un decennio dall’Ape Piaggio alla Porsche Cayenne. Il risentimento cresce.
Il cinquantenne Wang Liping, arrivato da Empoli nel ‘90, ricorda: «Presi la residenza nel capannone. I vigili lo sapevano e non avevano niente da ridire. Era il momento in cui i pratesi abbandonavano il Macrolotto ed erano contenti di affittare o vendere a noi. Diventammo il welfare privato per artigiani locali in pensione anticipata». Ora Liping è vicepresidente della Cna, ha associato 80 aziende di connazionali (una goccia rispetto alle 4.000 stimate), è un grosso rappresentante di filo da cucire e possiede cinque capannoni. Considerato che, oltre ad affitti da 5-10 mila euro al mese, gli italiani si facevano pagare buonuscite da 100 a 300 mila euro solo per consentire ai cinesi di entrare, è uno che ce l’ha fatta ma ha dovuto faticare. Ora calcola che se i suoi connazionali, 16 mila regolari, forse altrettanti clandestini, non dormissero più nei capannoni servirebbero alloggi per almeno 5.000 persone. Il governatore toscano Enrico Rossi, con un’uscita che ha fatto discutere ma sembra ispirata da un’onestà che solo in politica diventa autolesionismo, ha proposto intanto di mettere in sicurezza i dormitori esistenti. Qualcuno calcola che, per regolarizzare tutto, un capo dovrebbe costare almeno il doppio dei 50 centesimi attuali. Ma a quel punto verrebbero ancora le aziende italiane attratte da questa delocalizzazione interna?
Perché qui, che lo ammettano o no, il lavoro arriva da quasi tutti i protagonisti del Made in Italy. E non solo, a giudicare dalle dichiarazioni in cui il governatore Rossi cita Louis Vuitton e Chanel, oltre che Zara e H&M (che ha però smentito subforniture nella fabbrica incendiata). Sul Sole 24 Ore l’amministratore di Liu Jo ha fatto una specie di coming out, specificando però che i suoi fornitori sono tutti perfettamente in regola («Lo saranno il 10 per cento del totale»). Cinesi cattivi ma anche cinesi buoni, è già un passo avanti. Sebbene il riflesso condizionato scatti sempre sulla prima opzione. Nel 2007 la Finanza controlla una fonderia di Poggio a Caiano gestita da cinesi e scopre degli stampi da pelletteria con una serie di marchi famosissimi. Il titolare non sa una parola d’italiano, vari blog locali titolano: «Scoperta fabbrica del falso». Peccato che poi arrivi la moglie, che invece capisce la nostra lingua, e mostri la lettera d’incarico con cui una griffe che ci dà lustro nel mondo affida la commessa a un intermediario toscano che, a sua volta, con lettera e fatture in regola, la gira ai cinesi. Niente di illecito, sia chiaro, ma è il cinese a doversi difendere. «Il processo è in corso e i documenti che abbiamo sono solidi» mi spiega il difensore Stefano Camerini. «C’erano altri stampi del fior fiore della nostra moda senza lettere d’incarico, ma i miei clienti hanno i nomi degli italiani che glieli hanno affidati».
Qui, da sempre, gli affari si fanno alla svelta, senza troppi convenevoli. Anche prima non era la Svizzera. Gli immigrati assimilano le usanze locali. Ma a Prato ora fanno i controlli solo sui cinesi. «Sono vere politiche razziali » dice il professore Massimo Bressan, appassionato direttore del centro studi Iris, «come quando il Comune ha emesso un’ordinanza che faceva chiudere prima la sera solo i ristoranti del Macrolotto». E infatti il Tar l’ha bocciata perché discriminatoria. Gli dà ragione il caso di Campi Bisenzio, dove invece che concentrarli in un ghetto hanno fatto sì che i cinesi si sparpagliassero in città. E ora hanno anche la prima assessora cinese d’Italia. Secondo il capo della Cna Bettazzi, contro l’illegalità bisogna puntare sulla corresponsabilità: «Se tu italiano affitti un capannone o fornisci il tessuto devi informarti su dove va a finire». Brezzo, il sindacalista, avrebbe una sua ricetta su come fare i controlli, ma soprattutto vede la dimensione globale del fenomeno: «Dovremmo ridurre il flusso di tessuti stranieri in entrata e far approvvigionare i cinesi dai fornitori pratesi: ci guadagneremmo tutti».
Nel baretto dove li avevamo lasciati, l’interprete Yang Shi traduce le parole della moglie trentenne di una vittima, un confezionista da 1.900 euro. Anche lei dormiva nella fabbrica, si è salvata perché non stava bene e approfittando delle feste imminenti era tornata in Cina per farsi curare. Un altro sopravvissuto è un cinquantenne che stirava gli abiti finiti per 12 centesimi a capo. L’avevano appena licenziato perché lo consideravano lento. E lui era rientrato in patria per il matrimonio del figlio. Altrimenti ora non sarebbe qui.
Yang Shi e Cristina Pezzoli, anime del vicino centro culturale Compost, hanno coinvolto i cittadini nell’immaginare cosa succederebbe se tutti i cinesi se ne andassero da Prato. Nella simulazione si è raggiunto un conflitto altissimo. Meglio sfogarlo in scena che per strada. Dove quasi ogni giorno c’è una rapina, spesso di altri immigrati ai danni dei cinesi. Hanno contanti. Denunciano poco o punto. Se continua così i derubati organizzeranno delle ronde. Intanto un consigliere comunale è uscito da Prato libera e sicura per entrare in Fronte nazionale, il gruppo xenofobo ispirato ai Le Pen. Può sempre andare peggio. Invece di mostrare i muscoli e scrivere oscenità incendiarie sul web converrebbe dialogare. Niente fermerà gente che qui può avere un futuro dieci volte migliore che a casa propria.