Vittorio Malagutti, l’Espresso 10/1/2014, 10 gennaio 2014
MARCHIONNE NEL TUNNEL DEL DEBITO
Al salone di Detroit, l’annuale rassegna dell’industria dell’auto che si apre lunedì 13 gennaio, Sergio Marchionne non si lascerà certo sfuggire l’occasione di celebrare il suo ultimo colpo di teatro. Il capo di Fiat ha completato la scalata a Chrysler con un esborso di gran lunga inferiore rispetto a quanto il sindacato Veba aveva inizialmente chiesto per cedere il suo 41 per cento della casa statunitense. E per di più l’operazione, del valore complessivo di 4,3 miliardi di dollari, verrà finanziata per oltre i due terzi attingendo alla cassa della società acquisita che, a differenza della Fiat, produce profitti in gran quantità. Insomma, ce n’è abbastanza per rafforzare una volta di più la fama del Marchionne gran pokerista, fenomenale negoziatore, campione della finanza straordinaria.
I mercati però non si lasciano facilmente incantare da miti e leggende, neppure i più consolidati nel tempo come quello del manager dei due mondi partito da Torino per salvare una delle tre grandi aziende automobilistiche a stelle e strisce. La nuova Fiat-Chrysler ha troppi debiti, questo il verdetto degli analisti internazionali e delle società di rating chiamate a valutare l’affidabilità finanziaria della multinazionale del Lingotto. E l’affondo di Moody’s, che martedì 7 gennaio ha messo sotto osservazione i conti di Fiat in vista di una possibile riduzione del proprio rating, suona come una conferma dei dubbi diffusi sul mercato. Il voto di Moody’s e delle altre agenzie non è fine a se stesso. Se la valutazione si abbassa, Marchionne sarà costretto a riconoscere un tasso d’interesse più alto sui titoli obbligazionari emessi dal gruppo. Già adesso il costo del debito per il Lingotto risulta più elevato rispetto alla media delle altre multinazionali dell’auto. Evitare un ulteriore peggioramento del rating è quindi il primo degli obiettivi di Marchionne, da anni costretto a misurare le sue ambizioni su un bilancio zavorrato dai debiti. Conti alla mano, l’esposizione complessiva di Fiat più Chrysler era di 28,8 miliardi di euro a fine settembre 2013, data dell’ultima trimestrale. Una somma superiore a quella di tutti i concorrenti internazionali con l’eccezione della francese Peugeot.
Per migliorare i ratio patrimoniali non ci sono che due strade. Si vendono attività per incassare denaro fresco. Oppure si aumenta il capitale per rafforzare i mezzi propri. La prima soluzione pare destinata a restare una pura ipotesi. Marchionne non sembra al momento disposto a privarsi di marchi come l’Alfa Romeo. D’altra parte la possibilità di un aumento di capitale è stata più volte esclusa negli ultimi mesi, anche se la holding Exor degli Agnelli certo non manca dei mezzi necessari per fare la sua parte, visto che solo sei mesi fa ha fatto il pieno di liquidità incassando 2 miliardi di euro con la vendita della controllata svizzera Sgs.
Niente da fare, allora. Né vendite, né aumento. Fiat però non può permettersi di continuare a ignorare a lungo i dubbi e le preoccupazioni dei mercati finanziari. Ecco, allora, che tra i consulenti del Lingotto ha conquistato consensi una terza ipotesi, quella di un convertendo, cioè un prestito destinato a essere obbligatoriamente trasformato in azioni a una scadenza prefissata. La soluzione del convertendo presenta vantaggi innegabili come una maggiore velocità di esecuzione (potrebbe essere messo sul mercato in tempi brevissimi) oltre a minori costi. Infine, agli Agnelli, così come agli altri azionisti, verrebbe garantita una maggiore flessibilità sui tempi e i modi con cui sottoscrivere la propria quota. Rispetto a un normale prestito convertibile, in cui la trasformazione delle obbligazioni in azioni è solo facoltativa, il convertendo viene valutato dalle agenzie di rating praticamente alla stregua di nuovo capitale.
I vantaggi quindi non mancano di certo per un’operazione che, secondo indiscrezioni, dovrebbe fruttare una cifra compresa tra 1,5 e 2 miliardi. Certo, è anche vero che la semplice menzione del termine "convertendo" evoca ricordi non proprio piacevoli in casa Fiat. Fu proprio grazie a un prestito di questo tipo che nel 2002 la casa torinese giunta a un passo dal fallimento si assicurò ossigeno finanziario grazie all’intervento di un pool di istituti di credito che fornirono 3 miliardi di euro. Nel 2005 gli Agnelli riuscirono a riscattare la quota di capitale che rischiava di passare definitivamente nelle mani delle banche. Fu, quest’ultima, un’operazione sul filo del rasoio su cui venne aperta un’inchiesta della procura di Torino che portò alla condanna a 14 mesi per aggiotaggio di Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, rispettivamente presidente della holding Ifil degli Agnelli e consulente legale della famiglia. Proprio un mese fa la condanna è stata annullata dalla Cassazione per sopravvenuta prescrizione.
Altri tempi, quelli. La nuova Fiat transatlantica non rischia certo il fallimento, ma la zavorra dell’indebitamento finisce per condizionare i suoi piani d’investimento. L’acquisto del 100 per cento di Chrysler e la successiva prossima fusione della casa americana con la Fiat consentiranno di fare cassa comune tra le due aziende. In sostanza, le attività italiane potranno essere finanziate attingendo alla ricca cassa della consociata Usa. Questo però non potrà avvenire prima del 2015 per motivi tecnici legati alle clausole dei prestiti bancari. E comunque resta da vedere se sindacati e politici americani accoglieranno con favore questo travaso di risorse verso l’altra sponda dell’Atlantico. Le incognite più pesanti, infatti, sono quelle che riguardano il destino degli impianti italiani. Il piano "Fabbrica Italia" lanciato nel 2010 è ormai un lontano ricordo. Da allora Marchionne ha cambiato più volte la rotta, frenando sul lancio di nuovi modelli in attesa di una ripresa del mercato che è rimasta una chimera.
Il capo del Lingotto svelerà le sue carte entro aprile, quando verrà presentato il nuovo piano industriale. Nelle settimane scorse sono però circolate indiscrezioni che fissano a quota 9 miliardi di euro gli investimenti in Europa entro il 2016. Marchionne punta a rilanciare il cosiddetto segmento Premium, cioè i marchi Alfa Romeo e Maserati, con l’obiettivo di incrementare i margini di profitto mettendosi in concorrenza diretta con Bmw, Audi, Mercedes. È un progetto ambizioso. A dir poco. Per farsi un’idea basta un confronto. Negli ultimi giorni del 2013 Audi ha annunciato investimenti per 22 miliardi entro il 2018, più del doppio rispetto alla Fiat. E i tedeschi partono già in vantaggio di molte lunghezze. Buona rincorsa, Marchionne.