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 2014  gennaio 10 Venerdì calendario

L’UOMO CHE PORTO’ IN BORSA IL JAZZ

Squillo di tromba: un jazz club si quota in Borsa. Non è mai successo né in Europa né a Wall Street. A metà febbraio il Blue Note di Milano, trasformato in spa, esordirà all’Aim di Borsa Italiana, il listino delle aziende innovative. Con l’obiettivo di raccogliere 2 milioni di euro per aprire, insieme a un partner, una sede a Roma e forse altrove. Che si avveri il sogno di Walter Veltroni? Da sindaco, nel 2003, il jazzofilo kennediano aveva invano sperato in un doppio sbarco del Blue Note newyorkese; i milanesi fecero da soli, insieme al fondatore Danny Bensusan. Veltroni varò poi la Casa del Jazz, con successo. Mentre dieci anni dopo, il club nel cuore dell’Isola sfiora i 4 milioni di fatturato, ha ospitato leggende da Chick Corea a McCoy Tyner, ha fatto solidi profitti negli anni 2008-10, non più negli ultimi due di recessione, ma scommette lo stesso su Piazza Affari.
Piccola storia? Sì, ma storia di coraggio. Costruita su un triangolo: Napoli, New York, Milano. Il coraggioso, Paolo Colucci, 54 anni, padre napoletano, madre inglese figlia di un imprenditore di alta sartoria di Savile Row, è un apprezzato avvocato d’affari. Con i suoi partner, Lega Colucci Albertazzi, ha curato oltre 200 fusioni e acquisizioni, tra cui nel 1999 l’Opa delle Generali sull’Ina da 24 mila miliardi di lire, la seconda più grande realizzata in Italia dopo Olivetti-Telecom. Quando si presentò a Manhattan, alla società dei Bensusan, aveva esperienza di diritto internazionale e una passionaccia per il jazz, esplosa una sera del 1984 al Blue Note del Village: suonava il vecchio Dizzy Gillespie, e Colucci, studente di master a Harvard, riuscì a bersi una birra con lui. Il master lo fece alla Harvard Law School, fucina della classe dirigente Usa, che il giovane borghese napoletano (il papà era da poco mancato) frequentò quattro prima che s’iscrivesse un ambizioso ragazzo di Chicago, Barack Obama.
Intanto la stranezza: il Blue Note, fuori New York, esiste a Tokyo e a Nagoya in Giappone, e a Milano. Punto. Il perché non lo sa nemmeno lui, Colucci, che "l’Espresso" ha incontrato nei suoi uffici di via Moscova di fronte alla chiesa di Sant’Angelo. L’avvocato, sotto Capodanno, non veste da avvocato: pullover verde oliva, jeans e Clarks. «A quanto pare, in Europa, sono stato l’unico ad andare dai Bensusan e provarci. Abbiamo la licenza di marchio fino al 2020. Con loro facciamo il booking degli artisti internazionali, ogni mercoledì siamo in collegamento con i loro talent buyer per comprare date di musicisti». Blue Note fa 250 serate l’anno, dà lavoro a oltre 30 persone, il ristorante è caro ma va bene, con 300 posti la sala è il doppio della casa madre al Village. Causa crisi ha sofferto la parte eventi, le serate per le aziende. «Ora», riprende Colucci, «vogliamo crescere: migliorare le sinergie per i concerti, rinnovare la sala, l’impiantistica. E puntiamo a un ruolo importante durante l’Expo 2015». Siete tra coloro che ci credono? «Da un anno sì. Expo sta crescendo in una direzione promettente. Sarà la vera occasione di rilancio per Milano, con effetti sull’intera economia nazionale».
Quando gli chiediamo del perché un jazz club in Borsa, Colucci risponde: «Non contando sull’aiuto pubblico, ci rivolgiamo alla nostra comunità, a chi apprezza il nostro brand». Rievoca i timidi tentativi fatti, all’epoca della giunta Moratti, per esplorare un eventuale aiuto del Comune. Un incontro a Palazzo Reale con l’assessore Vittorio Sgarbi circondato di plauditores, questuanti, stangone brasiliane, in un clima di capriccio surreale: «Pareva "Scherzi a parte", lasciammo perdere». Poi l’udienza alla potente Fondazione Cariplo, i cui vertici lodarono il modello gestionale ma si scusarono: non potevano erogare alcunché a un’azienda profit.
Qui Colucci si scalda: «Continua a sfuggirmi come un’impresa che fa entertainment culturale di livello non possa essere aiutata perché fa profitti. Anche la quotazione in Borsa non dovrebbe essere un’eccezione; potrei immaginarmi lo sbarco in Borsa anche del Teatro alla Scala, che dipende da fondi statali e fa una fatica enorme anche se ben gestito; o di una fondazione d’arte privata, perché no?». Colucci non cita a caso: per un paio d’anni è stato consulente legale della Scala, all’inizio dell’era Lissner. «E comunque ritengo che erogare contributi pubblici solo a imprese senza fini di lucro sia anticostituzionale».
Una sera, sotto Natale, ha suonato al Blue Note l’incantevole Chiara Civello, romana trapiantata a New York, figlia di un medico e di una psicologa; un’altra emigrante di qualità. Colucci stesso, dopo il master a Harvard, ha lavorato a New York, avviato un primo studio Lca a Milano, portato in Italia il gigante Freshfields Bruckhaus Deringer (la londinese Freshfields è nobiltà pura, avvocati dei Lloyd’s, della Bank of England). Poi lo sganciamento, il ritorno allo studio autonomo. E la scommessa jazz.
Colucci detiene quasi il 50 per cento delle azioni. Tra i suoi 17 soci, il partner Giovanni Lega, il manager Marco Costaguta, il notaio Andrea Lops, il banchiere d’affari Sandro Valeri, l’imprenditore Enzo Manes. Revisore è il colosso Ernst & Young. Ma l’amministratore delegato è il nottambulo Alessandro Cavalla, ex manager del Tunnel, un’autorità in locali underground e musica di tendenza.
E i Bensusan, dello sbarco in Borsa cosa pensano? «Ci incoraggiano. Ma non partecipano, loro sono il classico family business». Oggi il capo è Steven Bensusan, uno dei figli di Danny. Gestisce club celebri come il B. B. King e la Highline Ballroom a New York, l’Howard Theatre a Washington dove negli anni Trenta si esibiva Duke Ellington. In fondo, il jazz fiorì nei club per l’atmosfera raccolta, la vicinanza corporea tra artista e pubblico. È la chiave del modello anche a Milano, dove senti i fremiti del pianista a pochi metri. Il Blue Note dell’Isola, quartiere in forte sviluppo, collegato alle torri scintillanti di Porta Nuova, ha ospitato mostri sacri come Jimmy Smith, Ray Barretto, Brad Mehldau, e lanciato i giovani Giovanni Allevi e Raphael Gualazzi; il 22 gennaio ci prova Chiara Galiazzo di X Factor. Dei grandi jazzisti italiani è più facile portare Paolo Fresu (affezionato) che Enrico Rava (costoso). Alcuni sono viziati dalle sale da mille posti. Altri amano la club culture: anche giganti come Corea, Chucho Valdés, Al Di Meola, gli Incognito, Marcus Miller.
Quanto a Colucci, deplora di non avere più tempo per frequentare gli artisti extra concerto. Raggiunge quando può la sua casa greca di Zante. Sta leggendo una biografia di Billie Holiday. E spera, per l’Italia, in un «completo ricambio generazionale». Segue con molta attenzione la sfida politica di Matteo Renzi e ritiene urgentissimi la lotta alla burocrazia, la semplificazione normativa, la drastica riduzione della sfera pubblica e del carico fiscale. Attratto dalla politica? «No», dice: «A ognuno il suo. La classe dirigente di noi cinquantenni, lo dico con rammarico, è logora, e vive lo Stato come un nemico. Avanti i nuovi. All’Italia serve una cosa sola: un Big Bang».