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 2014  gennaio 09 Giovedì calendario

IL NEUROSCIENZIATO CON IL PARKINSON


Un anno fa mi trovavo a un’elegante cena di lavoro piena di persone celebri e ricche. Ero stato invitato, insieme a mia moglie, in qualità di professore di una grande università americana. L’ospite con cui stavo chiacchierando, un uomo d’affari che aveva un parente colpito da una grave malattia, a un certo punto mi chiese: “Lei, che è un neuroscienziato, cosa ne sa del morbo di Parkinson?”».
La risposta rimase per alcuni, lunghissimi secondi sospesa nell’aria. Non perché il giovane docente, 38enne, ne sapesse poco o fosse impreparato. Al contrario, ne sapeva moltissimo, forse più della maggior parte dei neurologi. «Avevo un segreto. Un segreto di cui solo mia moglie era al corrente e che non avevo rivelato a nessuno dei miei colleghi. Io ho il Parkinson».
Inizia così un articolo apparso su Nature che, per chi non lo sapesse, è una delle più autorevoli riviste scientifiche al mondo; pubblica i risultati di studi, resoconti su progressi medici e test clinici, nuove scoperte su farmaci. Trovarci storie di vita o, addirittura, frammenti autobiografici è un’eccezione. Ma queste due paginette anomale rivelano, sulla malattia, sul lavoro di uno scienziato, sulle angosce, sulla viltà (non lo dico) e sul coraggio (lo dico), più di un trattato.

«Ricordo la prima volta in cui mi accorsi che qualcosa non andava» prosegue il ricercatore. «Dovevo compilare una montagna di documenti per il laboratorio. Dopo qualche pagina la mia mano diventò un grumo tremante e inservibile di carne e sangue». Qualche giorno dopo si accorse che si stava modificando anche il suo modo di camminare, con le braccia rigide davanti a sé. E una contrazione occasionale a due dita di una mano. «Avevo 36 anni. Considerai varie ipotesi: tumore cerebrale? Distonia? Malattia dei motoneuroni? Corea di Huntington? Sclerosi multipla? Stress?».
Parkinson a insorgenza precoce: raro e cattivo. Come nel caso di un altro «eterno ragazzino», Michael J. Fox, in cui la malattia arrivò, nel 1999, quando aveva appena 30 anni. Fare come l’attore, che rivelò quasi subito (anche perché dovette ritirarsi dalle scene) la sua condizione? Il medico ci ha pensato su e ha deciso che, no, non l’avrebbe detto. «Pensai che avrei ricevuto meno finanziamenti. Mi dissi che gli studenti avrebbero avuto dubbi nell’unirsi al mio gruppo di ricerca. E, poi, per quanto avrei potuto continuare a condurre esperimenti, la cosa che amo di più? Tremori, rigidità, fatica, movimenti maldestri, cadute, difficoltà nel parlare. La maschera del parkinsoniano. Tutto questo sarebbe stato parte del mio futuro».
Da quel momento in poi il Parkinson detta le regole. Su tutto. Travolge le sue condizioni cliniche. Modifica le sue relazioni con gli altri e il suo modo di stare al mondo. Amplia in modo inedito la sua conoscenza di cosa succede a un cervello malato. Inizia un periodo di totale autocontrollo sul proprio corpo, per impedire che mani, volto, gambe tradiscano il segreto. Una recita di estenuante perfezione. Ciò che teme più di ogni altra cosa è lo stigma della «malattia mentale». D’accordo, il morbo di Parkinson non è la schizofrenia e nemmeno l’Alzheimer. Ma tanti non lo sanno, tanti confondono. Meglio tacere.
A volte, come racconta nell’articolo, cerca di sollevare la mano e la mano... niente, non lo fa. Ma non è che non possa, è come se si rifiutasse di farlo. Deve concentrarsi sull’atto di muoverla, smettere di pensare o di parlare. Qualche volta, quando nessuno lo vede, usa l’altra mano per sollevare e spostare quella inerte. Si sente in gamba e produttivo come prima, però teme che lo sguardo degli altri possa vederlo diverso. «Ogni momento della mia vita divenne una esibizione: al lavoro, al negozio di alimentari, persino di fronte ai miei due figli. Sono sempre iperconsapevole dei miei movimenti. Ed è così soprattutto durante le conferenze scientifiche. Voi potete non notare dove sono le mie mani, ma io lo so sempre. E molto spesso ci sono seduto sopra».
Al tempo stesso, avere una malattia neurologica è per un neurologo un’occasione spaventosa ma affascinante di entrare nella complessità del cervello, di sperimentare sintomi e conseguenze in prima persona, di seguire la progressione della malattia e l’efficacia dei farmaci. Di porsi domande che partono dalla scienza e finiscono nella filosofia: quando un cervello perde la propria capacità di interagire con il mondo, cosa resta della coscienza di sé?

Tornando a quella sera di lavoro, l’ospite illustre attendeva una risposta. «Avrei voluto guardarlo negli occhi e metterci la faccia. Dirgli: strano che me lo chieda, perché si dà il caso che oltre a essere un neuroscienziato io abbia anche il Parkinson. Invece mi limitai a descrivere in modo spassionato patologia e sintomi. Avrebbe potuto essere un’incredibile sfida intellettuale, ma non lo fu. Ed è questa una delle ragioni principali per cui ho deciso di smetterla di nascondermi».
Agli inizi di quest’anno, il giovane neuroscienziato ha detto la verità al suo dipartimento. Nei giorni successivi l’ha comunicato all’amministrazione dell’università e a molti colleghi. È stata dura, ammette, ma una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Tutti, al lavoro, l’hanno sostenuto e incoraggiato. «Ognuno mi tratta come al solito, mi sono sentito un idiota per avere sprecato tutto questo tempo a preoccuparmi di come avrebbe reagito il mondo. È ancora difficile dirlo a chi non conosco, ma ora non faccio più nulla per simulare. Vorrei dire a tutti che la vita è troppo corta per sfuggire a ciò che si è».
Il suo nome? La firma in fondo all’articolo di Nature non c’è. «Perché non voglio essere conosciuto come “il tipo con il Parkinson” prima di essere noto per i miei studi come scienziato. Detto questo, non mi nascondo più. E, se scavate abbastanza, non sarà difficile scoprire chi sono».

© riproduzione riservata Il neuroscienziato di cui si parla nell’articolo ha un blog su Parklifensci.blogspot e twitta a @Parklifensci@gmail.com