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 2014  gennaio 09 Giovedì calendario

I TERRENI FERTILI DELL’AGROMAFIA, UN RACKET CHE VALE SETTE MILIARDI


L’agricoltura è terreno fertile per le mafie. E non da oggi, se è vero che le prime forme organizzate di criminalità sono nate attorno al fenomeno del latifondismo. A Napoli, fino agli anni Cinquanta, il camorrista si chiamava il «presidente dei prezzi» perché si occupava di fissare il costo di vendita delle derrate di frutta e ortaggi nel mercato di Poggioreale. Era lui a decidere, senza lasciarsi influenzare da domanda e offerta.
È tutta roba dei nostri giorni, invece, la capacità di infiltrazione delle agromafie nel tessuto economico-produttivo nazionale e la sua esplosiva pericolosità in termini di sicurezza alimentare nel nostro Paese e nel resto del mondo.
Il perché di tanto interesse, da parte della Piovra, è legato a una semplice considerazione: si tratta di un segmento produttivo che riguarda milioni di persone (dunque, milioni di consumatori) la cui gestione, in uno con l’esercizio del potere mafioso nelle campagne, garantisce alle strutture criminali un controllo capillare del territorio anche, e soprattutto, nell’ottica di ulteriori sviluppi imprenditoriali (costruzioni abusive, cementificazione selvaggia...).
Soldi e consenso
Dunque, soldi e consenso. L’accoppiata vincente delle organizzazioni delinquenziali a ogni latitudine. I numeri da capogiro sono lì a dimostrarlo. Secondo la Direzione investigativa di Roma, su un totale di 47,5 miliardi di fatturato l’anno (ovvero, per essere pignoli, 96mila miliardi di vecchie lire) ben 7 miliardi appartengono all’illecito. Ciò significa che il 15 per cento del Pil agricolo è in mano a imprenditori collusi e banditi matricolati. La parola d’ordine, in questo caso, è dai campi agli scaffali. Con in mezzo tutta la filiera del valore. Le mafie fanno asso pigliatutto: dall’accaparramento dei terreni agricoli all’intermediazione dei prodotti, dal trasporto allo stoccaggio fino all’acquisto e all’investimento nei centri commerciali. Tutti i passaggi utili alla creazione del valore vengono intercettati e colonizzati. Le aree più sensibili sono quelle del Sud Italia, manco a dirlo. Con inquietanti proiezioni nel basso Lazio e, addirittura, in Piemonte e Lombardia.
Autarchia criminale
«Le organizzazioni criminali infatti impongono, con maggior vigore in determinate zone territoriali, i prezzi d’acquisto agli agricoltori, controllano la manovalanza degli immigrati con il caporalato, decidono i costi logistici e di transazione economica, utilizzano proprie ditte di trasporto (sulle quali spesso vengono anche occultate droga e armi), possiedono società di facchinaggio per il carico e lo scarico delle merci», rilevano gli esperti dell’Istituto Eurispes nel rapporto 2013. Naturale che, con queste premesse, le agromafie inizino ad interessarsi (come dimostrano le recenti inchieste sui riciclatori del boss siciliano Matteo Messina Denaro) anche alla Grande distribuzione organizzata, porta d’ingresso per le tavole (e i portafogli) degli italiani. Le inchieste della Dda di Roma, diretta da Giuseppe Pignatone, si sprecano.
Oligopoli
I rischi esistono, e sono tanti. E non è solo questione di sicurezza e di ordine pubblico. Un mercato infiltrato dalla delinquenza è un mercato malato, dove non c’è concorrenza ma germinano situazioni di monopolio o, al più di oligopolio. Le prove in questo senso sono abbondanti, come e più dei raccolti dopo una stagione di piogge. Una delle più inquietanti è contenuta agli atti dell’inchiesta condotta dal pm Cesare Sirignano, del gruppo anticasalesi della Dda di Napoli, vero e proprio «pioniere» delle indagini in questo settore, nel quale sono impegnati da tempo anche i carabinieri del Comando Politiche Agricole. È una intercettazione dell’imprenditore di Marsala Massimo Sfraga, sospettato di rapporti con Gaetano Riina, fratello del capo dei capi di Cosa nostra, «Totò ’u curto». Al telefono (sotto controllo) Sfraga si lascia andare a una vera e propria descrizione delle dinamiche criminali nel comparto dell’ortofrutta mafiosa. «Chi si mette contro di noi trova qualche problema. A Marsala diciamo noi i meloni a quanto devono andare, o a mille lire o a cento. Li possiamo vendere a qualsiasi prezzo. A Marsala se ci sono mille filari di meloni, 800 sono nostri. Vedete che in due giorni arrivano alle stelle. Ci metto due minuti, vado in campagna, prendo i miei camion, porto i meloni e non lavorate nessuno per otto giorni, vi faccio perdere tutti i soldi». Dal «presidente dei prezzi» degli anni Cinquanta alle estorsioni siciliane del 2008, come si può notare, le cose sono cambiate davvero poco perché i piccoli produttori devono vendere i prodotti al prezzo fissato dai fratelli Sfraga e da quelli come loro.
Quindi, non è più un problema solo di legalità ma anche di commercio. Di trasparenza del mercato, per dirla in breve. La leva su cui operano i gruppi è il costo sostenuto per il trasporto e lo stoccaggio dei bancali di merce. È quello che fa la differenza reale.
Prezzi triplicati
L’Antitrust ha provato a fare un paio di calcoli e ha scoperto che i prezzi per l’ortofrutta si triplicano dal produttore al consumatore, mentre in presenza di una filiera cortissima (acquisto diretto dal produttore da parte del distributore al dettaglio) e di una lunga (tre o quattro intermediari tra produttore e distributore finale) i rincari passano dal 77 fino al 294 per cento di media. In mezzo, i casi di uno o due intermediari non risolvono granché il problema dal momento che provocano un’inflazione - rispettivamente - del 100 e del 280 per cento del prezzo originario. Il trucchetto è quello solito: la moltiplicazione dei «passaggi» . Più soggetti intervengono nel «trattamento» della merce, maggiore sarà il prezzo al mercato e, quindi, il peso sul consumatore finale. È un po’ come un’Iva criminale: l’Imposta sul valore aggiunto (dalla mafia).
Ma come si possono moltiplicare i costi? Semplice: imponendo i servizi di trasporto e logistica ai produttori e ai distributori. È questo, infatti, l’unico elemento variabile che può far gonfiare la fattura. Anche perché agli imprenditori agricoli, i broker delle agromafie, pagano poco. Pochissimo. E spesso nemmeno riescono a coprire le spese di produzione. Tra il 2000 e il 2009 si è infatti verificato un vero e proprio crollo dei redditi degli agricoltori la cui quota per ogni 100 euro prodotti dalla filiera è precipitato da 7,6 a 1,5 euro. E poi si parla di contrazione dei consumi e dei redditi.
L’ortofrutta ha una peculiarità diversa da tutti gli altri business gestiti o comunque infiltrati dalle mafie. Non esistono gruppi che si fanno la guerra. Non ci sono bande che si annientano l’un l’altra per il controllo del settore, come accade - ad esempio - con la droga, la prostituzione e il racket. Dove vince quello che, seppur malconcio, riesce a stare ancora in piedi.
Un mercato ibernato
No, con le agromafie è diverso. Non c’è concorrenza anzi le cosche si organizzano, fanno business insieme. Creano «cartelli» non solo sottraendo risorse a chi lavora, ma anche creando un reticolato di alleanze di mutuo soccorso che di fatto ibernano il mercato.
Il tutto con l’indubbio e indiscusso vantaggio dell’invisibilità. Chi mai penserebbe, infatti, che i Casalesi o la ’ndrina dei Tripodo o il clan di Totò Riina potrebbero mai fare affari trasportando arance rosse piuttosto che fragole o angurie. Invece, è proprio così.
Per tornare all’inchiesta napoletana sugli Sfraga, ad esempio, scrivono gli investigatori: «Ad alcun operatore commerciale è dato sfuggire alle maglie di siffatta spartizione ed a prescindere dalla qualità o meno del servizio reso e/o della concorrenzialità del prezzo richiesto e pagato». Infatti, sono «numerose le conversazioni nelle quali i clienti pur lamentandosi con le relative ditte di ritardi nelle consegne e/o di cattivo servizio di trasporto mostravano la consapevolezza di non potersi sottrarre al circuito così deciso e comunicato loro dai titolari delle ditte di trasporto».
Sfruttamento del territorio
Agromafie significa, però, anche sfruttamento criminale del territorio. L’Italia è il terzo paese nell’Unione europea, dopo Olanda e Belgio, per deficit di suolo agricolo e il quinto su scala mondiale: dagli anni Settanta ad oggi, infatti, la perdita di superficie agricola ha interessato una superficie pari a 5 milioni di ettari, un’area equivalente al territorio delle regioni Liguria, Lombardia ed Emilia-Romagna. Il cemento ha divorato soprattutto terreni agricoli e aree boschive, impedendo la naturale capacità di rigenerazione del ciclo ambientale. Le cause della contrazione dei suoli agricoli sono dovute, anzitutto, all’abbandono dei terreni agricoli, un fenomeno che - scrivono gli addetti ai lavori dell’Eurispes - «interessa prevalentemente le aree poco redditizie, quelle a basso livello di infrastrutturazione, più periferiche e inaccessibili come quelle montane». Altro fattore è la cementificazione: dagli anni Cinquanta ad oggi, tale fenomeno ha interessato un’area di 1,5 milioni di ettari, equivalente all’intera Regione Calabria; in soli 15 anni i Comuni hanno rilasciato permessi per costruire pari a 3,8 miliardi di metri cubi, oltre 250 milioni di metri cubi l’anno. Spesso offrendo, proprio alla criminalità organizzata, la migliore sponda per riciclare il denaro accumulato con ben altri affari.
Simone Di Meo e Maurizio Gallo