Giorgio Velardi, Lettera43 9/1/2014, 9 gennaio 2014
PD, MAL DI LAVORO
Adesso o mai più. Matteo Renzi sa che il tempo a sua disposizione non è infinito. Ecco perché, nella serata di mercoledì 8 gennaio, ha reso noti i punti nodali del suo Job act, documento con cui punta a scuotere il governo presieduto da Enrico Letta.
Un piano suddiviso in tre parti (sistema, nuovi posti di lavoro e regole) che ha già registrato il plauso della Cisl («Bisogna discuterne approfonditamente, ma tendenzialmente siamo favorevoli», è stato il commento del segretario generale, Raffaele Bonanni) ma che ha trovato la fredda risposta del ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, secondo cui per metterlo in pratica sono necessari «forti investimenti».
Già nella eNews nella quale ha presentato lo scheletro del piano lavoro, il segretario del Pd ha assicurato che questo «non è un documento chiuso, ma aperto al lavoro di chiunque».
Circostanza ribadita, via Twitter, il 9 gennaio: quella pubblicata è una «bozza» che sarà definita il giorno 16 - quando si svolgerà la direzione del Pd - e che poi diventerà un «documento tecnico».
Per questo motivo anche i meno renzientusiasti preferiscono aspettare quella data prima di dare giudizi. Tra questi anche il capogruppo del Pd alla Camera, Roberto Speranza, che dirà la sua dopo aver letto il testo definitivo.
Va detto che all’interno del partito in molti apprezzano lo slancio del sindaco-segretario, anche se ognuno ha i propri punti di vista. «Ci sono molti titoli e non riesco a capire se entreranno nel patto di governo o no, che mi pare la cosa più rilevante», spiega a Lettera43.it Giuseppe Civati. «Se si decide di andare avanti fino al 2015», aggiunge lo sfidante di Renzi alle ultime primarie, «sarebbe opportuno capire qual è l’agenda comune tra partito e governo, perché ora mi pare che ognuno vada per sé…».
A criticare il Job Act, ancor prima che questo vedesse la luce, ci avevano pensato i Giovani turchi Matteo Orfini, Fausto Raciti, Chiara Gribaudo e Valentina Paris, che lo definirono «insufficiente».
Paris ora apprezza il fatto che Renzi abbia dettato delle linee guida senza formalizzare una proposta organica. «Si percepisce che c’è la volontà di confrontarsi e questo è un merito del segretario».
Ci sono però delle «mancanze», ammette la deputata campana. «Bisogna capire come sarà ridisegnato il sistema di welfare e di universalità dei diritti, su cui dovrebbero esserci delle innovazioni». E poi, evidenzia Paris, «a prescindere dalle tipologie contrattuali» i due aspetti su cui lavorare sono «malattia e maternità». Infine c’è la necessità che «lo Stato si assuma le proprie responsabilità nei confronti degli autonomi, che in questi anni sono stati lasciati ai margini anche per ciò che riguarda il tema degli ammortizzatori sociali».
Anche Cesare Damiano si è detto convinto a metà del piano renziano. L’ex ministro del Lavoro ha detto di condividerne l’approccio perché «non si riduce al tema delle regole» ma anzi «si parte dalla riduzione delle tasse per chi produce lavoro». Però, ha ammesso,ì in un’intervista a La Repubblica, «non vorrei si trattasse solo di buoni propositi. Bene la semplificazione a patto che non sia de-regolazione e diminuzione dei diritti». E sull’assegno di disoccupazione universale sono «totalmente contrario se è sostitutivo dello strumento indispensabile che è la cassa integrazione».
Fra gli estimatori del segretario, all’interno del Pd, non c’è sicuramente Giuseppe Fioroni. Che pure, letto l’impianto del Job act definisce «importanti e interessanti» alcuni dei punti che lo compongono, come la riduzione sostanziale delle tipologie contrattuali e le tutele per i neoassunti.
«Vorrei porre l’accento su una questione», dice però Fioroni: «Lo Stato deve avere un senso del limite, non può essere invasivo in particolar modo nei confronti dei corpi intermedi. Sia le forze imprenditoriali sia quelle sindacali devono essere autonome e libere» nei loro movimenti. «Non è compito nostro», conclude l’ex ministro dell’Istruzione, «dire come i sindacati devono scrivere il loro statuto o come deve agire la Confindustria: questo potrebbe danneggiarci».
C’è poi chi si augura che le proposte del segretario del Pd siano volte a «creare lavoro» più che a «smantellare i diritti». È il caso di Davide Zoggia, ex responsabile organizzazione del partito. Anche lui apprezza nel complesso la proposta del leader del Nazareno e si dice «assolutamente convinto» che serva «una riforma del mercato del lavoro» che si basi su due capisaldi: «Sburocratizzazione e investimenti».
Si può discutere, inoltre, riguardo la proposta di non applicare l’articolo 18 ai neoassunti (che pure un fedelissimo di Renzi come Dario Nardella ha etichettato come «non centrale» nel dibattito): «Sia nei confronti del governo, sia in quelli del partito che delle parti sociali», dice Zoggia, «la metodologia del confronto mi pare corretta».
Un buon punto di partenza. Il traguardo, però, è ancora lontano.