Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 9/1/2014, 9 gennaio 2014
L’ITALIA DIVISA IN CENTO PARTITINI LA DERIVA LOCALE DEL MODELLO SPAGNOLO
C’è un rischio finora sottovalutato, nel modello elettorale spagnolo. E incrocia una grande questione oggi rimossa: il localismo italiano.
La questione meridionale e quella settentrionale, il tema del decentramento e delle autonomie sono i desaparecidos della vita pubblica, dopo averla dominata per vent’anni. La riforma regionalista votata dall’Ulivo non ha fatto che creare nuove burocrazie spendaccione. La devolution prima e il federalismo fiscale poi, imposti dalla Lega a Berlusconi, si sono rivelati binari morti della storia. Ora si fa come se la questione non esistesse, nell’illusione che a risolverla basti la popolarità dei sindaci, tra i pochi ad aver resistito all’ondata di discredito che ha travolto la classe politica. Invece la tenuta dell’unità nazionale, già incrinata dall’Europa e dalle rivendicazioni locali, sarebbe messa a durissima prova se davvero il Parlamento adottasse il modello spagnolo.
L’Italia sarebbe divisa in piccole circoscrizioni — si è fatto il numero di 118 —, ognuna delle quali eleggerebbe cinque o sei deputati. È già stato fatto notare che così non si risolve il problema delle liste bloccate, denunciato dalla Corte costituzionale: gli elettori continuerebbero a non scegliere gli eletti. Né dalle urne emergerebbe in modo automatico una maggioranza di governo: in Spagna, dove ci sono due soli grandi partiti nazionali, Zapatero non ha avuto la maggioranza assoluta né nel 2004 nel 2008, e ha governato per due legislature esposto alle bizze e alle richieste di baschi, catalani, galiziani. È vero che la proposta di Renzi prevede un — modesto — premio di maggioranza, che però in un sistema tripartito come quello attuale potrebbe non essere sufficiente. Ma il rischio più grave è un altro. La crisi della politica e della sovranità nazionale è tanto grande che in ognuna delle cento e più circoscrizioni germinerebbe un partitino locale. Nulla di più facile che tra i cinque o sei eletti ci sia anche un «sindacalista del territorio». Altro che Lega Nord: il vincitore delle elezioni si troverebbe a inseguire tante piccole leghe; quella del Sannio, quella dei Nebrodi, quella delle Langhe, quella della Tuscia... Ognuna di quelle province che si vorrebbero abolire, ogni città, ogni campanile avrà una sua lista che si ammanterà del nobile nome di «civica» ma finirebbe per esercitare una frazione di un gigantesco potere di veto, e di una vasta pretesa di favori.
Nessuno dei partiti ora in campo gode di buona salute. Quello in testa ai sondaggi, il Pd, deve le sue attuali fortune più alla popolarità del nuovo segretario che alla compattezza interna o alla capacità di rappresentare le componenti più dinamiche della società e del Paese. Se all’antica piaga del localismo si sommano il disagio sociale e l’eclissi della democrazia rappresentativa, il sistema politico italiano può davvero andare a pezzi e rendersi refrattario a qualsiasi leadership; a meno che non si pensi di ricostruire quelle larghe intese che hanno dato risultati modesti e in ogni caso non sembrano proprio l’obiettivo di Renzi e Berlusconi.
La stessa Spagna, che è uno Stato da almeno sette secoli, temprato da una casta militare e amministrativa che si trovò a governare buona parte delle terre allora conosciute, sta andando a pezzi (anche se certo non solo a causa del suo sistema elettorale). Figurarsi cosa potrebbe accadere a uno Stato giovane e fragile come il nostro, sottoposto a spinte centrifughe che la febbre spagnola non farebbe che accelerare e rendere devastanti.