Vittorio Zucconi, la Repubblica 9/1/2014, 9 gennaio 2014
SEGNALI DI FUMO – [DALLA BEAT GENERATION AL “VIZIETTO” DEI PRESIDENTI]
Il fumo dolciastro di una domanda tossica si alza dal Far West americano, dal Colorado che ha legalizzato la marijuana: è questo l’inizio della fine per la mistica della “canna”, della “ganja”, del “joint”, del “pot”, del “weed”, del “bong”, della cannabis? Le lunghe file di clienti attorno agli isolati dove hanno aperto i primi spacci legali di marijuana a Denver, arrivati da tutti i punti cardinale degli Usa, possono sembrare la celebrazione finale della vittoria anti proibizionista e del “libero fumo in libero Stato”. Ma quando le barriere mediche, legali, superstiziose, ideologiche contro l’uso di una sostanza psicotropa fra le più antiche conosciute stanno rapidamente crollando e già 13 Stati su 50 americani ne ammettono la vendita, qualcosa di assai più stupefacente rischia di crollare con la proibizione: la sua gemella inseparabile, la trasgressione.
Se gli effetti del tetrahydrocannabinol e degli altri 84 cannabinoidi attivi contenuti nella pianticella sono noti da almeno cinque millenni a sciamani, stregoni e agli almeno 200 milioni di essere umani in tutto il mondo che ne fanno uso regolare secondo l’Onu, quello che la scienza non ha mai potuto misurare esattamente è l’effetto culturale e politico della “Mary Jane”.
L’uso di questa, come di altre sostanze con effetti sulla percezione della realtà, non è mai stato soltanto la ricerca di sensazioni piacevoli, o di vie di fuga dalla banalità sensoriale, ma di sfida alle convenzioni, al perbenismo, alla piattezza. Ma quando la marijuana diventa essa stessa normalità, il paradosso suggerirebbe che non usarla diventi trasgressione.
Senza neppure risalire alla “ganjika” citata nei testi in Sanscrito ed evidentemente riconoscibile nella “ganja” giamaicana, e ai semi di cannabis ritrovati con le mummie di sciamani nell’Uygur cinese, il consumo delle foglie di questa pianta è scritto a chiare lettere nella storia della civilizzazione americana. È provato che George Washington, padre degli Stati Uniti, la coltivasse nella sua piantagione in Virginia, anche se le guide turistiche oggi evitano di illustrare questo dettaglio alle classi di ragazzi in gita scolastica. Negli anni ‘30, molto prima che la marijuana facesse il proprio trionfale ingresso nel mondo dell’arte, della musica, dello spettacolo, l’uso delle «canne » in piena Grande Depressione era così diffuso, e preoccupante, da avere indotto il Congresso a introdurre una dura legge proibizionista nel 1937.
In quegli stessi anni, fra il 1936 e il 1937, film di propaganda antimarijuana — altra prova certa della sua diffusione — furono finanziati e diffusi con messaggi apocalittici sui suoi effetti. Titoli come “Ditelo ai vostri figli”, poi reintitolato più bruscamente in “Reefer Madness”, la follia della canna, o l’ancora più brutale “L’Assassino della Gioventù”, sono diventati oggetti di culto e di ridicolo nel circuiti dei cinema d’essai. La cannabis era l’attrezzo del demonio, la porta d’oro che conduceva inesorabilmente alla demenza e all’uso di droghe micidiali. La musa di una decadente creatività da debosciati europei come Charlers Baudelaire, frequentatore di “hash parties” e autore dei “Paradisi Artificiali”, o Walter Benjamin, che ad esse dedicò un saggio “On Hashish” del 1929 che sarebbe stato tradotto e pubblicato negli Stati Uniti soltanto 75 anni dopo.
Ma sarebbe stati gli anni del grande benessere post bellico, della torpida quiete degli anni ‘50, a vedere l’esplosione, e la canonizzazione della marijuana, e poi dell’acido Lisergico, lo LSD della Lucy in the Sky with Diamonds dei Beatles nella cultura prima alternativa e poi di fatto mainstream. Il carburante della “Beat Generation”, dei Kerouc, dei Ginsberg, dei Ferlinghetti, poi degli Hippie a San Francisco fu quella molecola di tetrahydrocannabinol, con la promessa di apertura della consapevolezza, di sfondamento dei confini della coscienza, verso un flusso continuo di “consciousness” che prometteva la liberazione dai canoni piccolo borghesi e middle class della società.
Arrotolare, accendere e passare un “joint”, una canna era, più ancora degli effetti reali della pianticella, già un gesto di diversità, di ribellione, di rifiuto di quel mondo opprimente e stantio dei padri nel quale, senza volerlo ammettere, gli alternativi stavano ben dentro. “L’Effetto Farfalla” della marijuana, che da una semplice tirata di fumo lancia una reazione a catena di pensieri, sensazioni e percezioni, che «sembra scatenare un flusso continuo di associazioni mentali» come scrisse una studio della solenne rivista media Psychiatric Research era il sacro Graal di quella generazione insieme maledetta e benedetta dalla prosperità post bellica. Un viaggio, un trip, una scalata, uno high, fuori dalle convenzioni.
Ma la banalizzazione dell’uso, la sua estensione proprio a quei gruppi e a quelle classi sociali che i “fumatori maledetti” avrebbero voluto aggirare ha cominciato progressivamente a depurare anche la marijuana dal mito della trasgressione e dell’alterità. Ora si scopre che qualche joint l’hanno fumato tutti. Clinton, il magnifico bugiardo, tentò di spiegare che aveva «fumato, ma non aspirato», formula ovviamente risibile. Ma Obama ha ammesso di essersi fatto di “Mary Jane”.
E così hanno John Kerry, ora segretario di Stato, George Soros, finanziere miliardario globale, Oprah Winfrey, divinità della classe media buonista femminile, Bill Gates di Microsoft, il governatore di New York Andrew Cuomo, il dottor Sanjay Gupta, medico di riferimento per la rete Cnn, Michael Bloomberg, ex sindaco di NY, Ted Turner, Angelina Jolie, Brad Pitt. George Bush il Giovane obliquamente confessò, spiegando di non voler ammetterlo per «non incoraggiare i giovani a fumarla». E mentre il giurista Douglas Ginsburg vide la propria ascesa alla Corte Suprema nel 1986 stroncata dalla scoperta che da studente di legge si era fatto varie canne, Clarence Thomas, che oggi siede in quella stessa, massima Corte, non ha avuto problemi a riconoscere di avere fumato quando era all’Università.
L’accettazione della cannabis, sia pure come presunto peccadillo di gioventù, da parte delle massime celebrità e autorità civili della nazione, di quella che nel luogocomunismo italiano sarebbe chiamata “La Casta”, il suo diventare un vizietto non più esecrabile del legalissimo alcol e meno letale del tabacco, non poteva che condurre alla sua legalizzazione. Pur nella ambiguità delle leggi, che a livello federale ancora considerano un reato il consumo di marijuana — e vedono l’arresto di 700 mila persona all’anno, con 40 mila condanne detentive — mentre i singoli Stati come il Colorado lo consentono, la marea è irreversibile. Tre quarti dei cittadini Usa si dichiarano favorevoli, nei sondaggi, e la teoria della «porta d’oro » verso tossicodipendenze gravi è ormai largamente screditata.
Acquistare e fumare cannabis è più socialmente accettabile che fumare tabacco e sicuramente meno pericoloso che il consumo di alcol, anche grazie a veri o esagerati benefici medici. Gli Stati, famelici di introiti fiscali, guardano vogliosi a quel 25% di tasse, noi diremmo Iva, che il Colorado ha imposto e nei prossimi mesi, altri seguiranno il suo esempio. Quella che sta andando in fumo è la mistica della canna, l’illusione del passaggio a un’altra realtà della coscienza, creativa e politica. I “beat”, i “ribelli”, gli “alternativi” di ieri sono diventati i maturi baby boomers di oggi e sono riusciti a rendere banale come l’acquisto di una birra la “ganja”, metabolizzandone e digerendone il significato ideologico. Resta il fumo, ma scompare il brivido del peccato.