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 2014  gennaio 09 Giovedì calendario

MARLISE È MORTA PER LA FAMIGLIA MA È ANCORA VIVA PER I MEDICI


Marlise non può morire. Cerebralmente è morta, però l’ospedale dove è ricoverata la tiene artificialmente in vita, contro la volontà dei suoi genitori e di suo marito, perché è incinta. Questa drammatica storia che viene dal Texas è l’ultimo episodio di un dibattito sulla vita e la morte tanto intenso quanto complicato e contraddittorio. Finora avevamo sentito soprattutto di famiglie che volevano tenere in vita i loro cari, nonostante i medici e la legge fossero contrari, ma qui avviene il contrario.
Marlise Munoz ha 33 anni ed è sposata con Eric. Vivono poco lontano da Fort Worth, dove lui fa il pompiere, e hanno un figlio di 15 mesi che si chiama Mateo.
Oltre un mese fa Marlise si è sentita male, mentre stava in cucina, ed è caduta a terra. Il marito stava dormendo e si è svegliato solo un’ora dopo l’incidente. Quando ha trovato la moglie ha subito chiamato l’ambulanza, che l’ha portata al John Peter Smith Hospital, ma al pronto soccorso le sue condizioni sono apparse disperate. Secondo i medici, ha avuto un embolo polmonare e, quando è arrivata in ospedale, il suo cervello non dava alcun segno di vita: morte cerebrale, che in molti casi corrisponde anche con la morte legale.
I genitori, Ernest e Lynne Machado, sono corsi al pronto soccorso e poco dopo hanno convenuto col genero Eric che purtroppo non c’era nulla da fare: bisognava accettare il destino e staccare la spina.
A quel punto, però, hanno ricevuto una strana risposta dai medici. Facendo le analisi, avevano scoperto che Marlise era incinta di 14 settimane e, quindi, si rifiutavano di lasciarla andare. Motivo: la legge in Texas vieta di staccare la spina a qualunque donna in gravidanza. Il fatto che lei fosse cerebralmente morta, e che tutti i parenti fossero concordi sulla necessità di interrompere le cure, era irrilevante. Secondo la legge, prima di tutto bisogna cercare di salvare la vita del feto e, quindi, i dottori sono obbligati a tenere artificialmente in vita la paziente fino a quando non sarà possibile cercare di farlo venire al mondo.
I medici non sono neanche sicuri delle condizioni in cui si trova il nascituro, perché calcolano che al momento dell’incidente potrebbe essere rimasto senza ossigeno per circa un’ora, con danni irreparabili al cervello. Però hanno sentito il suo battito cardiaco e quindi non possono lasciar morire la madre. Marlise è in queste condizioni ormai da oltre un mese e la sua gravidanza è arrivata alla ventesima settimana. L’ospedale non ha chiarito cosa intende fare, ma secondo le indiscrezioni che trapelano aspetterà almeno per altre due o quattro settimane, prima di decidere se e quando tentare un parto cesareo.
Naturalmente questa storia, come sempre accade in casi simili, ha subito assunto delle proporzioni politiche che vanno oltre i desideri dei famigliari. I gruppi «pro-life» si sono schierati dalla parte dell’ospedale, sostenendo che la vita del feto è cominciata e quindi è doveroso dargli al possibilità di venire al mondo. I gruppi «pro-choice», invece, rispondono che ormai Marlise è morta, i parenti vogliono staccare la spina e comunque avrebbe il diritto costituzionale ad abortire, visto che la sua gravidanza era alla quattordicesima settimana.
Lynne Machado, la madre della donna, cerca di cambiare l’argomento: «Non è - ha detto al New York Times - una questione di pro-life o pro-choice. Il punto qui è che i desideri di nostra figlia non vengono onorati dallo stato del Texas». Ancora più risentito è il padre Ernest, ex agente di polizia e veterano dell’Air Force: «Marlise a questo punto è solo un contenitore del feto. L’altro giorno ho toccato la sua pelle in ospedale ed era come quella di un manichino: non posso più andarla a trovare, perché voglio ricordarla come una cosa viva, non un pezzo di gomma. Ciò mi fa arrabbiare contro lo Stato. Che diritto hanno di entrare in queste vicende? Da quando nella capitale Austin praticano la medicina? Stanno solo prolungando la nostra agonia».
Gli Stati che hanno leggi simili a quella del Texas sono 31, alcune sono più stringenti e altre meno. Hanno iniziato ad approvarle negli Anni 80, quando era cominciato il dibattito sul termine della vita, proprio per rispondere alle preoccupazioni dei gruppi pro-life sulla sorte dei feti in casi simili.
Il caso di Fort Worth, naturalmente, sta dividendo i due campi. Alcuni esperti di etica sostengono che Marlise non è più neppure una paziente, perché ormai è cerebralmente morta, e non si può chiedere ai medici di continuare a curare un cadavere. Altri rispondono che l’ospedale non ha ancora pronunciato l’ultima parola sulle sue condizioni e, comunque, se il battito del feto si può sentire, è dovere dei dottori cercare in tutti i modi possibili di farlo nascere.
La famiglia in tutto questo resta nel mezzo, angosciata e disorientata. Eric ha ripreso il lavoro, anche se ogni giorno torna vicino al letto della moglie. Ernest e Lynne si occupano del piccolo Mateo, che secondo loro è tutto quello che gli resta della figlia.