Martino Cervo, Libero 8/1/2014, 8 gennaio 2014
USA NELLA GRANDE GUERRA PER ORDINE DELLE BANCHE
Dalle teorie cospirazioniste alla Guerra di Charlie Wilson, non c’è filone più florido di quello compreso nel disvelamento delle soperchierie di ciò che va sotto il nome di «impero americano». Il rischio di pescare in ideologie complottarde, nel libro La nascita dell’impero americano. 1934-1936: la Commissione Nye e l’intreccio industriale, militare e politico che ha governato il mondo di Gianfranco Peroncini (Mursia, pp. 702, 25 euro), si ferma al sospetto che il titolo potrebbe indurre. Il volume è appunto dedicato alla ricostruzione della Commissione Nye, forse una delle più note del Congresso Usa accanto a quella legata al nome di Joe McCarthy.
Cambio di rotta
La tesi di fondo del testo - che fa proprie le motivazioni della stessa commissione voluta dal senatore repubblicano Gerald Nye in pieno New Deal (1934-36) - non è inedita, ma a rendere interessante il lavoro è la ricostruzione delle attività della stessa indagine parlamentare. In sostanza, questa era nata per documentare e approfondire le motivazioni economiche dell’intervento americano nella Prima guerra mondiale, frutto di un radicale cambio di rotta in seguito alla rielezione di Woodrow Wilson (futuro Nobel per la pace) nel 1916.
A un’America ancora nelle secche della crisi del ’29 la commissione Nye rivela un pezzo di verità sconveniente e politicamente appetibilissima: dietro l’intervento seguìto all’af - fondamento del celeberrimo «Lusitania » ci furono specifici interessi commerciali e finanziari che sterzarono di 180 gradi la politica di neutralità promossa dall’ammi - nistrazione Usa. Come raccontano i capitoli centrali (il sesto risulta tra i più interessanti), sul banco degli imputati finiscono tre categorie: banchieri, cartello delle imprese di navigazione e produttori di munizioni. Non è difficile intravvedere il favore con cui gli ultimi due potessero guardare a un’escalation bellica. Quanto agli istituti di credito, nel 1917 erano 2,3 i miliardi di dollari (una cifra imponente oggi, pressoché smisurata circa 100 anni fa) di esposizione del sistema nei confronti della Gran Bretagna. Un debitore simile non poteva che diventare un alleato cui garantire la vittoria nel conflitto mondiale, dal momento che la perdita della capacità di pagare il debito si sarebbe trasformata in catastrofe.
L’intervento dunque si spiega solo come un diktat di produttori e banchieri interessati a tutelare posizioni di rendita? Il testo non scivola in semplificazioni devianti. Di certo, la narrativa del Paese sceso in guerra per combattere l’ultimo conflitto, quello definitivo per difendere la causa della democrazia, si arricchisce di elementi meno nobili e più attinenti alla Realpolitik. La chiave dell’«industrial military complex» - l’espressione è di Dwight Eisenhower - è offerta come filtro attraverso cui leggere la politica estera americana anche al di là della Prima guerra mondiale.
Il celebre discorso di addio alla nazione pronunciato da “Ike” nel 1961 comprendeva il seguente passaggio: «Nelle riunioni di governo dobbiamo guardarci le spalle dall’acquisizione di influenze che non danno garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro ». Non c’è scelta di fondo della politica estera americana, dall’ap - poggio o dal rovesciamento dei regimi sudamericani alla guerra del Golfo fino agli interventi in Iraq e Afganistan, in cui la ricerca di interessi che influenzano, se non concorrono a determinare, le linee guida dell’amministrazione non sia sfruttabile come motivazione reale da contrapporre a quelle “ufficiali” di difesa della democrazia.
Interessi e democrazia
In felice contro-tendenza con una narrativa diffusa che vede su molti fronti l’arretramento (o addirittura la conclusione) dell’impero americano, la dettagliata ricostruzione di Peroncini sulla genesi di questo impero consegna, quasi per contrasto, il dubbio che in un sistema come l’America le due cose (interessi e lotta per la democrazia) possano persino non essere in contraddizione.