Maria Silvia Sacchi, Corriere della Sera 8/1/2014, 8 gennaio 2014
DIVORZIO E AFFIDO, ORA LA NORMA SEGUE IL COSTUME DALLE RIFORME DEGLI ANNI SETTANTA AD OGGI COME LA LEGISLAZIONE SI ADATTA AI CAMBIAMENTI
MILANO — Era da parecchio tempo che al legislatore arrivavano sollecitazioni affinché intervenisse in tema di cognome paterno (attribuzione che, peraltro, deriva dal costume più che da una norma esplicita scritta nel codice).
Si era espressa in questa direzione, per esempio, la Corte Costituzionale sottolineando — come ricorda Cesare Rimini, tra i decani dell’avvocatura di famiglia — che «il riconoscimento dell’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza uomo-donna». Qualcuno ha anche provato, nel corso degli anni, a porre il problema in Parlamento, ma senza risultati.
D’altra parte, dopo la grande stagione delle riforme degli Anni 70, con l’introduzione del divorzio, dell’aborto e la riforma del diritto di famiglia del ’75 «che ha abolito la patria potestà, ha permesso il riconoscimento del figlio naturale ed equiparato finalmente marito e moglie nei diritti e nei doveri derivanti dal matrimonio — spiega Anna Galizia Danovi, presidente del Centro per la riforma del diritto di famiglia — bisogna arrivare agli anni Duemila per ritrovare una spinta legislativa impor-tante, con le norme per contrastare la violenza domestica, sull’affidamento condiviso dei figli in caso di separazione dei genitori e sull’equiparazione completa dello status dei figli, che siano nati da coppia sposata o da coppia non sposata. Spiace dirlo — sostiene Galizia Danovi — ma il nostro è un diritto di famiglia che oggi è stimolato dalla giurisprudenza e dagli organismi europei».
È stato, per esempio, sotto la spinta del diritto internazionale che anche in Italia si è ammesso che si potesse divorziare per «mutuo consenso», ovvero per accordo tra marito e moglie, come ricorda Stefania Bariatti, ordinario di Diritto internazionale privato e processuale nell’università di Milano. Fino ad allora, in Italia si accettava il divorzio per questo motivo di due cittadini stranieri (riconoscendo le relative sentenze emesse all’estero), non per due cittadini italiani. Un po’ come avviene oggi nel cognome: coppie spagnole, brasiliane e americane (anche con uno dei due partner italiano) possono dare al figlio il doppio cognome, così come le coppie non sposate quando il figlio sia riconosciuto dal padre solo per secondo. Non invece le coppie italiane sposate.
Il fatto è che la famiglia è cambiata e sta cambiando profondamente e velocemente. Meno matrimoni e più divorzi; meno figli e, quando arrivano, sempre più spesso da coppie non sposate; una forte richiesta di diritti da parte delle coppie omosessuali, un progresso tecnologico che in poco tempo ha modificato radicalmente le modalità di diventare padre e madre…
«In Italia si è fatto pochissimo, sul riconoscimento dei diritti arriviamo tardi e male», dice Mimma Moretti, giurista, a lungo docente di Diritto di famiglia all’università di Milano. È il caso, per esempio, delle norme sulla procreazione assistita del 2004, più restrittive di analoghe legislazioni internazionali e divenute secondo Moretti «una bolla di sapone» con il risultato che molte coppie si recano all’estero per ottenere ciò che non possono avere in Italia.
Da qualunque parte arrivi la spinta, in ogni caso, si possono vedere almeno due costanti nelle norme che hanno accompagnato la famiglia italiana degli ultimi 40 anni. La prima «è la parificazione tra marito e moglie, anche con il principio della comunione legale, espressione della solidarietà anche economica che deve esistere tra i coniugi», dice Gloria Servetti, presidente della IX Sezione civile del Tribunale di Milano, la sezione che si occupa della famiglia. La seconda è la progressiva eliminazione di «tutte le figure che erano diseguali per gli orientamenti internazionali, come i figli naturali rispetto ai legittimi, una grande riforma», aggiunge Rimini.
Molto resta da fare. «Dall’Europa arrivano tante sollecitazioni ad affrontare i diritti delle coppie conviventi e delle coppie omosessuali — dice Bariatti —. E, poi, bisogna rendere più veloce il divorzio: tre anni sono troppi, soprattutto quando non ci sono figli. In Spagna e in Gran Bretagna si divorzia in poco tempo, in Francia hanno fatto una proposta per non passare neanche più dal giudice se il divorzio è consensuale e tutto è a posto».
Su quest’ultimo punto anche Gloria Servetti è d’accordo, «in alcuni casi potrebbe essere funzionale evitare il passaggio dalla separazione — dice la giudice —. Ci sono coppie molto giovani con esperienza matrimoniale di pochissimi mesi e senza figli, l’attesa di tre anni non porta alcun vantaggio. Bisogna prendere atto che è stato un errore di valutazione».